|

Gorani: il tempo, lo spazio, la danza

di Alberto Borghini

Il messaggio progettuale e l’impiego delle fonti antiche come criterio diacronico-conativo (nonchè geografico-conativo) nella scrittura di viaggio (*).

Occupiamoci, senz’altro, di un versante specifico (o ‘particolare’) del presente lavoro di G..

Nella sequenza argomentativa di difesa/proposizione della danza, quale si può leggere nel capitoletto Saluzzo (Art. 21), il contenuto di predicazione dell’anonimo monaco viene almeno in parte a ‘corrispondere’ alle affermazioni del personaggio che, in una operetta antica, il dialogo Sulla danza di Luciano di Samosata, si esprime per l’appunto in maniera fortemente critica contro la danza stessa (Cratone); quantomeno viene a corrispondere a talune delle affermazioni cui l’altro personaggio (Licino) risponde, a difesa – invece – della danza.Se l’anonimo monaco del G. tratta la danza come “una delle invenzioni fra le più diaboliche dei moderni”, il Cratone lucianeo mette in guardia Licino dal diventare da “uomo di una volta” (exandros tou palai) “una donna lidia o una baccante” (Sulla danza 3) (1); se il monaco del G. tratta la danza come “divertimento (…) indegno di un essere ragionevole”, il personaggio lucianeo (Sulladanza 2) giudica la danza occupazione indegna di un uomo “cresciuto insieme con le lettere” e “compagno discreto della filosofia”, come occpazione per nulla confacente “ad un uomo libero” (eleutheroi andri).La risposta di G. si modella, seppur operando (com’è ovvio) selettivamente, sulla risposta di Licino/Luciano. Ma la risposta di quest’ultimo è, per così esprimermi, di primo grado. Licino dirà, ad es., dialogando direttamente con Cratone (prima e seconda persona): “(…) io penso che tu sia completamente ignaro del fatto che la pratica della danza non è nuova e non è cominciata ieri o l’altro ieri, come sarebbe ai tempi dei nostri nonni o di quelli loro, ché anzi gli studiosi più veritieri delle origini della danza potrebbero dire che contemporaneamente alla prima formazione dell’universo nacque anche la danza (…)” (Sulla danza 7). Si confuta insomma la ‘modernità’ (e l’ ‘episodicità’?) della danza; al contrario essa è nata con la (in certo qual modo ‘consustanziale’ alla?) “prima formazione dell’universo” (hama tei protei genesei ton holon).Da parte sua, la secca controaccusa del G. al monaco è ‘indiretta’, ‘spostata’ su quel piano che E. Benveniste chiama della non-persona (terza persona); si potrebbe parlare di grado secondo in quanto grado ‘derivato’: “queste invenzioni non facevano che dimostrare la sua ignoranza e la sua idiozia, perchè se avesse letto i buoni autori antichi avrebbe saputo che l’esercizio della danza fu raccomandato dai legislatori più saggi e dai più grandi filosofi (…)”. Orbene, qui “i buoni autori antichi” saranno, nello specifico, Luciano (e Platone, credo); ma anche in Luciano già interviene – come abbiamo visto e come potremo constatare nel seguito – il riferimento ai tempi passati (anzi al ‘tempo originario’ della “prima formazione dell’universo”) e a diversi popoli nonchè a poeti e a saggi filosofi delle epoche a loro volta antiche per Licino/Luciano ed il suo interlocutore.L’argomento, ripreso dal G. nella sua risposta – non secondo la ‘forma dialogica interna’ dell’io-tu, bensì alla terza persona (alla non-persona) dell’ ‘interlocutore’/monaco ignorante etc. –, propone proprio tramite Luciano una dimensionalizzazione dell’antico a doppio livello, o, forse meglio, lungo piani, che dinamicamente si ‘aprono’ e si ‘sovrappongono’, di proiezione d’altronde incommensurabilmente asimmetrica dell’antico (di un antico non più statico nè appiattito su un astratto e del tutto improbabile unico piano): il primo di essi – in qualche modo storicamente e ‘relativamente’ definibile – in effetti evoca asintoticamente all’indietro il secondo (i tempi del mito, più ancora un tempo delle ‘origini del tutto’). Il primo è – diciamo approssimativamente – quello dello stesso Luciano (sebbene non solo); il secondo – ‘generato’ dal primo – è quello per eccellenza sempre antico (antico anche per l’antico, intendo), ed asintoticamente antico, del mito (per es. Omero, Creta) nonchè, oltre ancora, dell’origine del tutto (“prima formazione dell’universo”): ‘epoche’, insomma, già asintoticamente antiche in epoca antica. Dunque, è una sorta di ‘geometria all’infinito’ del tempo (dell’antico), e per tale via della danza (della sua ‘essenza’ e della sua funzione), che tramite Luciano G. pone in atto: ‘citando’ Luciano, G. fa dell’antico una dimensione geometricamente dinamica, che ‘genera’ illimitatamente proiezioni che si sovrainvestono ma dall’indietro, fin dal mito e dalle origini del tutto (hama tei protei genesei ton holon ).Ma vediamo di descrivere i processi argomentativi un po’ più semplicemente, anche a costo di qualche semplificazione di troppo. I “buoni classici antichi” risulteranno essere Luciano e probabilmente Platone, in prima istanza (antichità che chierei di primo livello); quindi, tramite Luciano, poeti filosofi nonchè popoli etc. già antichi ai tempi di Luciano (antichità che semplificando chiameremo di secondo livello). Per la verità, come abbiamo accennato, questa antichità ‘relativa’ (di primo livello), affonda le sue radici – tramite Luciano, tramite in fin dei conti se stessa – assai all’indietro; diventa come un susseguirsi (più ancora, un sovrainvestirsi) di epoche all’indietro: Omero, Esiodo ed oltre, fin alle origini mitiche e religiose (anche ‘cosmiche’?), tanto greche quanto non greche.Si va costituendo, attorno alla danza, una sorta di climax retorico-argomentativa che riguarda la sua origine nonchè la sua funzione educativa, sociale e politica etc., che ha del resto portata mitico-religiosa; essa investe, col discorso sui Tessali e gli antichi Romani le istituzioni stesse dello stato.Cerchiamo di delineare, punto per punto, le pur evidenti corrispondenze fra i nodi tematici che scandiscono il decorso argomentativo – le riprese argomentative – del G., da un lato, e il suo modello lucianeo, dall’altro lato.Leggiamo da G.:“(…) avrebbe visto (il monaco accusatore cioè) che nell’isola di Creta la danza faceva le delizie degli uomini più virtuosi, della nobiltà e del popolo; avrebbe visto che Omero volendo fare l’elogio di Merione lo chiama un buon danzatore. Egli avrebbe visto che Pirro, così famoso per il suo valore e per le sue conoscenze militari, eccelleva nella danza, e che egli inventò una controdanza cheportava il suo nome; avrebbe visto che gli Spartani, che non si potevano accusare di debolezza nè di poltroneria, camminavano in combattimento come dei danzatori al suono dei flauti, e che la loro gioventù si occupava molto in questo esercizio, che i Tessali, popolo molto bellicoso, tenevano in così gran conto la danza che donavano il titolo di danzatore ai loro primi magistrati. Infine questo monaco avrebbe dovuto almeno sapere che i preti ebrei danzavano davanti all’arca dell’alleanza, e che tanti altri preti facevano precedere con la danza l’iniziazione dei neofiti nei loro misteri. La danza fu un divertimento diletto per tutti i popoli più celebri nella storia. Gli Etiopi si presentavano danzando e con le armi alla mano davanti ai loro nemici. Al levar del sole gli Indiani danzano primadi rivolgergli le loro preghiere.Gli Egiziani erano eccellenti danzatori e la loro favola diProteo non è altro che un danzatore che sapeva prodursi in ogni specie di figure, come Empusa non era che una danzatrice abile ad assumere tutte le forme.I preti di Marte, chiamati Salii, erano i migliori danzatori fra i Romani; essi richiamavano alla memoria dei devoti che il loro dio era diventato vigoroso e pieno di valore con la danza. Infine Omero, Esiodo ed i più stimati autori dell’antichità hanno fatto tutti l’elogio della danza; Socrate stesso la volle imparare e Platone raccomandava la danza come uno degli esercizi più necessari ad un buon soldato e ad un cittadino pieno di zelo per il servizio della sua patria” (corsivi miei). A parte (mi pare del resto ovvio) il riferimento ai “preti ebrei” e all’ “arca dell’alleanza”, la serie argomentativa cui fa ricorso G. nel passo appena riportato (Creta, Omero/Merione, Pirro, Spartani, Tessali, Etiopi, Indiani, Egiziani/Proteo, Empusa, Salii, Omero/Esiodo, Socrate, Platone) ricorre con pressochè ‘perfetta’ puntualità nell’operetta di Luciano. Non sarà difficile ricostruire la ‘corrispondente’ sequenza lucianea. Sulla danza 8 (isola di Creta):“(…) In séguito i Cretesi più valorosi, praticando attivamente l’arte, divennero ottimi danzatori, e non solo i privati cittadini, ma anche i principi che aspiravano al trono”. Sulla danza 8 (Omero a proposito di Merione):“In realtà Omero chiamò Merione danzatore volendolo onorare, non screditare (…)”. Sulla danza 9 (Neottolemo-Pirro):“(…) ritengo sufficiente nominare Neottolemo, che era figlio di Achille, ma anche si distinse molto in quest’arte e ad essa aggiunse la forma più bella, che da lui ha avuto il nome di Pirrica (…). E fu proprio l’arte sua di danzatore che espugnò Ilio fino a quel momento imprendibile e la rase al suolo”. Sulla danza 10 (Spartani):“Gli Spartani, che hanno fama di essere i più prodi dei Greci, (…) non fanno nulla senza le Muse e arrivano al punto di combattere al suono del flauto con passo ben regolato dal ritmo; e il primo segnale per l’attacco è dato agli Spartani dal flauto. Sta di fatto che, guidati dalla musica e dal giusto ritmo, vincevano tutti. E oggigiorno puoi vedere ancora i loro adolescenti apprendere non meno a danzare che a combattere in armi: quando, infatti, hanno smesso di lottare con le sole mani, di colpire ed essere a loro volta colpiti, la loro gara finisce in una danza, e un flautista siede in mezzo a loro suonando e battendo il tempo col piede, mentre quelli in fila, uno dietro l’altro, si esibiscono, procedendo con passo ritmato, in figure di ogni genere, ora in quelle guerresche, ora in quelle corali (…)”. Sulla danza 14 (Tessali):“In Tessaglia la pratica della danza si sviluppò al punto che chiamavano primi danzatori i loro dirigenti e i loro campioni (…)”. Sulla danza 18 (Etiopi):“Gli Etiopi, anche quando combattono, non lo fanno senza la danza, e nessun guerriero etiope lancerebbe il dardo, (…) se prima non avesse danzato e con le movenze minacciato, con la danza spaventato preventivamente il nemico”. Sulla danza 17 (Indi):“Ma perchè sto a parlarti dei Greci, se anche gli Indi, quando, alzatisi al mattino, pregano il Sole, non fanno come noi che, baciata la mano, riteniamo che la nostra preghiera sia compiuta, ma, rivolti ad oriente, salutano il Sole con una danza, regolando essi stessi in silenzio i loro gesti e imitando il movimento circolare del dio: e questo rituale degli Indi è preghiera, danza corale, sacrificio (…)”. Sulla danza 19 (Egiziani, Proteo):“E giacché abbiamo parlato dell’India e dell’Etiopia, vale la pena di scendere col nostro discorso in Egitto, il paese che è il loro vicino: mi sembra, infatti, che il vecchio mito volesse dire che anche l’egizio Proteo altro non era che un danzatore, un uomo abile nelle imitazioni, capace di assumere e di mutare qualsiasi forma, così da imitare con la vivacità dei suoi movimenti la liquidità dell’acqua e la veemenza del fuoco, la ferocia del leone e l’aggressività del leopardo, il dondolio dell’albero e, insomma, ciò che desiderasse. Il mito, quando se ne impadronì, descrisse la sua natura propendendo per il meraviglioso, come se egli diventasse quello che imitava, il che si adatta, è evidente, ai danzatori di oggi. Tu puoi vederli all’occasione trasformarsi rapidamente e imitare lo stesso Proteo”. Sulla danza 19 (Empusa):“(…) E si deve immaginare che Empusa, che si muta in mille forme, ci sia stata tramandata dal mito essendo una donna di tal natura”. Sulla danza 20 (Salii):“Dopo questi esempi non è giusto neppure dimenticare la danza dei Romani, che i più nobili di essi, chiamati Salii – è questo il nome del sacerdozio – danzano in onore di Ares, il più bellicoso degli dèi, e che è piena di maestà e di sacralità”. Sulla danza 23 (Omero, Esiodo):“(…) ben sapendo che sei un grande appassionato di Omero e di Esiodo – torno un’altra volta ai poeti -, che possa osare contraddirli, se elogiano la danza sopra ogni altra cosa”. Sulla danza 25 (Socrate):“Socrate, l’uomo più sapiente, se questo si deve credere di lui, visto che lo dice Apollo, non solo lodava l’arte della danza, ma anche riteneva opportuno apprenderla, attribuendo grandissima importanza al ritmo corretto e alla corretta musica, al movimento armonico e al portamento decoroso di chi si muove, e non se ne vergognava, pur essendo vecchio, considerandola una delle discipline più serie (…)”. Sulla danza 34 (Platone):“Del resto anche Platone nelle Leggi loda alcune forme di danza (…), dividendole in base al dilettevole e all’utile (…)”. Su quest’ultimo punto G. entra – rispetto al passo di Luciano – un po’ più nel merito della questione:“(…) Platone raccomandava la danza come uno degli esercizi più necessari ad un buon soldato e ad un cittadino pieno di zelo per il servizio della sua patria” (Art. 21). Della lettura delle Leggi – secondo il riferimento dello stesso Luciano – risente appunto l’ ‘argomentazione platonica’ del G.. Proponiamo dunque alcuni passi che il nostro Autore potrebbe aver tenuto ‘riassuntivamente’ presenti, e che comunque riguardano la formazione del “buon soldato” e del “cittadino pieno di zelo per il servizio della sua patria”. Plat. Leggi VII 6, 796 b-d: (2)“(…) Non si devono trascurare inoltre tutte le imitazioni che ci sono nella “danza corale” e che è conveniente realizzare, così la danza armata dei Cureti che è in uso qui (nell’isola di Creta cioè) e quella dei Dioscuri a Sparta. E anche da noi la vergine che ci è signora (Atena cioè), rallegrandosi del divertimento della danza, non ritenne di dovervi partecipare a mani vuote, ma, tutta coperta ed adorna della sua completa armatura, così volle compiere tutta la danza. Cosa questa che sarebbe conveniente imitassero in tutto i giovani e le ragazze, rendendo onore alla benignità della dea, per prepararsi alle necessità della guerra e per le feste. I bambini subito per tutto il tempo in cui non siano ancora giunti all’età di intervenire alla guerra, dovranno partecipare a determinate processioni e cortei a tutti gli gli dèi, sempre adornati con le armi e montati a cavallo, e rivolgere agli dèi e ai figli degli dèi le loro suppliche danzando e marciando, ora più veloci ora più lente. Così le gare e gli esercizi che le precedono devono avere, se mai, non altro scopo che questo quando vengono appunto messi in pratica sotto forma di esercizio. Questa è infatti una preparazione utile in pace ein guerra, allo stato ed alla famiglia (…)”. Leggi VII 10, 803 e:“Bisogna passare la propria vita divertendosi con qualche divertimento, coi sacrifici, i canti, le danze in modo da esser capaci di renderci così favorevoli gli dèi, respingere i nemici, e vincerli in battaglia (…)”. Leggi VII 17, 813 d-e:“Anche su questi argomenti molte cose dunque noi abbiamo già detto, sulle danze e su tutti i movimenti ginnastici. Stiamo infatti istituendo i ginnasi e tutti gli esercizi fisici che ci preparano alle fatiche della guerra (…). I maestri di tutte queste arti saranno pubblici, forniti dallo stato, e dallo stato saranno retribuiti; saranno loro discepoli i giovani e gli uomini dello stato, ed anche le ragazze e le donne che impareranno ogni aspetto delle arti suddette. Le ragazze finché sono tali saranno esercitate in ogni tipo di danza armata e nel combattimento” etc.. Leggi VII 18, 814 e:“Per i rimanenti movimenti di tutto il corpo, si direbbe bene chiamando in qualche modo ‘danza’ la loro parte principale; bisogna ritenere che sono due i loro aspetti, uno che rappresenta mimicamente i corpi più belli e tende alla nobiltà di atteggiamenti (…). Di ciò che è nobile nella danza un aspetto è la rappresentazione mimica dei corpi armoniosi in atteggiamenti di guerra e impegnati nell’esercizio di dure fatiche, e di anime forti (…)”. Sulla danza denominata “pirrica” (al cui proposito Luciano, Sulla danza 9), così Platone, Leggi VII 18, 814 e – 815 a:“L’altra parte di queste danze, la danza di guerra, diversa da quella di pace, si potrebbe correttamente chiamare ‘pirrica’ e rappresenta come si evitano tutti i colpi inferti e tutti quelli delle armi da getto, con torsioni, ogni genere di arretramenti, saltando in alto, chinandosi; rappresenta pure i movimenti contrari a questi, quelli che portano agli atteggiamenti di attacco, nel lancio delle frecce e dei giavellotti, e che tendono a compiere tutte le imitazioni di ogni sorta di colpo assestato”. L’impressione, insomma, è che il rapporto di G. con le sue fonti antiche – quantomeno con certune fra le sue fonti antiche – sia un rapporto impegnato, non di superficie nè marginale rispetto ai fatti osservati nonchè rispetto ai criteri e ai ‘progetti’ di valutazione politica, militare, sociale (etc.) degli stati del suo tempo: nel caso che ci riguarda il Piemonte.Così, rispetto al fatto che a Saluzzo “si danzava dappertutto”, e rispetto alla gaiezza dei Saluzzesi, la prospettiva antica – prospettiva ‘dall’antico’ – sembra configurarsi non come puro e semplice insieme di esemplificazioni bensì come sfondo di ‘globalità’ tanto diacronica quanto geografica di cui la questione contingente ed occasionale (piano di ‘località’) si fa significante ‘in grado di significare’: il sapere – il sapere attraverso “i buoni autori antichi” – comporta questo ‘gioco’ di correlazioni, dal fatto che si osserva agli sfondi di ‘globalità’ diacronica e geografico-etnologica, coinvolgenti del resto, oltre alla dimensione socio-politica e militare, la sfera poetica (Omero, Esiodo), quella filosofica e della ‘logica’ delle istituzioni (Socrate, Platone, Tessali), quella mitico-religiosa (Indiani, Proteo, Empusa) e così via. Questi sfondi di ‘globalità’ diventano il sostrato del ‘particolare’; e si propongono quale percorso argomentativo, lungo percorsi per l’appunto già tracciati dalle fonti (Luciano, Platone). Ci troviamo, presumibilmente, di fronte ad un aspetto del rapporto fra politica ed istituzioni, da un lato, enciclopedia e saperi enciclopedici (in quanto saperi e percorsi di ‘globalità’ nell’accezione sopra detta?), dall’altro lato.Incidentalmente, una notazione breve, ma non di secondaria importanza, e in certo qual modo d’obbligo. Se il caso che ci riguarda è nello specifico il Piemonte del suo tempo, da mettere in rilievo, per quanto concerne il ‘metodo’ del G. – un altro aspetto, non di secondo piano (come accennavo), che si fa complementare (‘enciclopedicamente’ complementare?) agli sfondi di ‘globalità’ cui mi riferivo sopra. In quel che chiamerei il Piemonte di G. (descrizioni e analisi tendenzialmente almeno abbastanza capillari senza peraltro perder di vista la visione complessiva e l’articolarsi dei mutamenti politico-amministrativi, di politica finanziaria, di costume etc.) non sembra venir mai meno la prospettiva comparata anche di versante sincronico ‘attuale’: il confronto per es. con il comportamento di altri governi e con le situazioni o mutazioni situazionali che si sono venute a determinare; con le ricadute di efficacia (militare, sociale, di ‘felicità dei popoli’) che le politiche (e le politiche finanziarie) comportano.E’ a queste ‘problematiche della sincronia’ – dell’attualità e/o quasi attualità – che G. cerca di affiancare in maniera non inerte, sì da costruire proposte armoniche e coerenti, i ‘saperi dall’antico’: gli sfondi di ‘globalità’ diacronico-geografica (poetica, filosofica, etnologica, mitico-religiosa etc.), che “i buoni scrittori antichi” consentono (già predisposti, insomma dai “buoni scrittori antichi”?).Torniamo ai rapporti di G. con le fonti antiche. Il nodo socio-politico che sembra essere uno dei perni nella visione delle cose del G. si costituisce – mi pare – su di un binomio le cui componenti sono – inscindibilmente – preparazione militare, per un verso, felicità/divertimento dei popoli, per un altro verso.Ritengo, al riguardo, che potrebbero allora suonare significativi taluni segnali ‘minimi’. Se rileggiamo le parole con cui il Nostro dà inizio – su base appunto lucianea – alla serie argomentativa delle esemplificazioni antiche relative alla danza, non ci sfuggirà forse come l’Autore introduca in realtà un termine, una modalità di giudizio, un ‘momento ulteriore’, che nel ‘corrispondente’ passo di Luciano sembrerebbe non esserci, o non essere comunque così in primo piano (sebbene possa essere connotativamente presente?): “nell’isola di Creta la danza faceva le delizie degli uomini più virtuosi, della nobiltà e del popolo”. Mi riferisco al termine “delizie”.Su questo preciso punto Luciano, riagganciandosi alle tradizioni mitiche delle danze armate dei Coribanti e dei Cureti, “come fossero guerrieri e invasati”, parrebbe più esclusivamente insistere sull’aspetto militare e politico-militare delle danze cretesi: “Innanzitutto dicono che Rea, compiaciutasi dell’arte, ordinò in Frigia ai Coribanti, in Creta ai Cureti di danzare e dalla loro abilità trasse non modesto giovamento, se con essa salvarono Zeus danzandogli intorno, cosicché giustamente il dio potrebbe ammettere di dover loro il premio per la sua salvezza, essendo sfuggito grazie alla loro danza ai denti paterni: questa danza – occorre sapere – era armata ed essi nell’eseguirla battevano le spade contro gli scudi e saltavano come fossero guerrieri e invasati. In séguito i Cretesi più valorosi (hoi kratistoi), praticando attivamente l’arte, divennero ottimi danzatori, e non solo i privati cittadini, ma anche i principi che aspiravano al trono” (Sulla danza 8).I danzatori cretesi di Luciano sono, tra i Cretesi, hoi kratistoi; e gli aristoi orchestai cretesi sono di prevalente, o pressochè eslusivamente, orientamento guerresco (e tra di essi ouch hoi idiotai monon, alla kai hoi basilikoteroi kai proteuein axiountes).In G. la ‘scelta’ di un termine quale “delizie” (“faceva le delizie”) mette in posizione di salienza l’aspetto del ‘divertimento’; e ciò tanto per il “popolo” quanto per i “nobili” (‘corrispondenti’ rispettivamente agli idiotai e ai basilikoteroi kai proteuein axiountes?).Siamo di fronte ad un ‘elemento costitutivo’ fondamentale delle proposte politiche, politico-amministrative e socio-politiche, del G. nei confronti dei governanti della sua epoca.E sarà d’altronde lecito ipotizzare – credo – che tale impostazione ‘derivi’ – o abbia ad ogni buon conto trovato un fondamento e un supporto ‘dall’antico’ – nella visione platonica relativa appunto alle danze (e allo stato). In uno dei passi sopra citato delle Leggi, il filosofo antico sembra ‘combinare’ in effetti pace, vita al meglio possibile, divertimento, favore degli dei e funzione guerriera: “(…) bisogna che ciascuno viva la sua vita in pace il più a lungo e il meglio possibile. E quale sarà allora per una vita il modo di essere corretta, secondo quanto s’è detto? Bisogna passare la propria vita divertendosi con qualche divertimento, coi sacrifici, i canti, le danze in modo da esser capaci di renderci così favorevoli gli dèi, respingere i nemici, e vincerli in battaglia” (VII 10, 803 d-e).A sua volta G. dichiara di anteporre al di sopra di tutto il “benessere sociale” dei popoli, il “benessere dell’umanità” (p. 38). Nell’art. 32, parlando dell’isola di Sardegna, di contro ai re che “preferiscono dominare Sardi miserabili e schiavi”, l’A. ha l’occasione di trattare dei “Sardi uomini liberi e felici” (p. 161), dipinti invece dai Piemontesi come selvaggi e feroci. Sarebbero i Sardi della parte interna dell’isola, sfuggita in realtà alla dominazione piemontese. Ricorrendo alle parole di un ufficiale che, smarritosi a caccia sulle montagne dell’isola, era caduto nelle mani di questi pretesi ‘incivili’, il Nostro mette in evidenza la sostanziale bontà e generosità di questa gente, sullo sfondo di una ‘naturale’ propensione per la danza. Così l’ufficiale (il quale – per parte sua – aveva con sè un flauto): “Io mi scontrai (…) con degli indigeni che mi presero di mira; io mi gettai in ginocchio, essi si avvicinarono, mi presero il fucile, mi perquisirono ovunque; trovarono nella mia tasca un flauto che esaminarono a lungo; io feci loro intendere con dei gesti che non era affatto un’arma ma uno strumento musicale e mi misi a suonare qualche aria gaia che li mise di buon umore; mi bendarono gli occhi e mi condussero a 4 o 5 leghe di là, in un grande villaggio, dove, dopo avermi sbendato gli occhi, mi presentarono a dei magistrati che mi fecero alcune domande alle quali rispondevo naturalmente; dopo questo interrogatorio mi si pregò di suonare il flauto; tosto i giovani dei due sessi si misero a danzare attorno a me e le persone anziane mi guardavano con estasi; dopo aver danzato ci si mise a tavola e mi si presentarono tutti i tipi di carne, di frutta, di legumi e del buon vino; il giorno dopo mi si condusse in un altro villaggio dove facevo danzare e dove mi si offrivano pranzi. Ogni volta che mi si portava da un luogo all’altro, mi si bendavano gli occhi per la strada, infine mi si tenne così per una quindicina di giorni, togliendomi e rendendomi successivamente la vista, ed alle sollecitazioni che feci per riavere la libertà di tornare a casa, mi si bendarono nuovamente gli occhi, e quando ebbi ripassato le montagne mi si mise in liberta coprendomi di carezze e facendomi dono di vino in una bottiglia e di cacciagione e di alcune curiosità del paese” (p. 162).Benchè oggetto tecnologicamente sconosciuto, il flauto dell’ufficiale (e l’ufficiale) viene (vengono) immediatamente accolto(-i) ed inscritto(-i) in quella che si potrebbe definire una struttura di gaiezza e di benessere. Più che di prigionia, per questo ‘soggiorno’ dell’ufficiale pressi i Sardi delle montagne non sarebbe del tutto fuori luogo parlare, in un certo senso, di tournée di un artista. Significativa altresì la ‘controprestazione’ rappresentata, oltre che dall’accoglienza e dal clima di festa, dai doni (e dai souvenirs?) conclusivi.Ad ogni buon conto, sembrerebbe trattarsi dell’immagine illuministica e romantica (ma ritengo che non ci dovrebbero essere grossi problemi a definirla senz’altro illuministico-romantica) di popolazioni allo ‘stato di natura’ o (più) vicine allo ‘stato di natura’, che pertanto ‘vivono bene’: in condizioni di libertà e felicità; aggiungerei, di divertimento e di festa (dove il dono – si può presumere – svolge una sua parte non inessenziale).E la danza, a sua volta, sembra anche in questa occasione assumere agli occhi di G. un ruolo che è di momento e nucleo di ‘riconoscimento’/’riconoscibilità’ dello stato collettivo di libertà e felicità (con cui, quantomeno in altri contesti, si coniugano nozioni quali “ordine” o “tranquillità” e persino “potere”).Sempre, per l’appunto, sul tema della “felicità” sociale (anzi, di una felicità sociale “costante”) etc., scrive il Nostro, riferendosi a Vittorio Amedeo III di Savoia: “mai non gli si potè far comprendere che il potere reale non si estende più lontano di quanto non lo esigano l’ordine, la tranquillità e la felicità costante della società, che non possono essere turbate daordini capricciosi” (Art. 38, La devozione di Vittorio Amedeo, p. 188; corsivo mio). In fin dei conti, è proprio dalla “felicità costante della società” (etc.) che deriva lo stesso “potere”, allorchè si tratti di “potere” non fittizio, di “potere reale”.Tornando alla Sardegna, alla cattiva amministrazione “della corte di Torino” e alla sostanziale ‘spaccatura’ tra la costa e l’interno, dove i Piemontesi non sarebbero affatto riusciti a far valere il loro dominio, annota G.: “Il miserabile stato nel quale è ridotta questa isola sarebbe ancora una nuova prova della detestabile amministrazione della corte di Torino, se questa prova fosse necessaria: non è cosa miserevole che dal 1718, che essa possiede l’isola, non si sia ancora impadronita della sua parte interna, né sia giunta a conoscerla? Basterebbe a ciò un’armata di non più di diecimila buoni soldati e ciò sarebbe per loro l’opera di due campagne al massimo, ma non si trattengono nel proprio dominio degli uomini familiarizzati con la libertà, con dei mezzi di despotismo, e forse i despoti sardi, conoscendo questa verità, hanno preferito rinunciare a questa conquista piuttosto che acconsentire ad un regime saggio, che essi sarebbero costretti ad estendere alle altre provincie e che tuttavia avrebbe più che raddoppiato le loro rendite, la loro popolazione e la loro potenza” (Art. 32, p. 161). Ancora:“(…) la corte di Torino avrebbe potuto ricavare da questa sola isola altrettanto di quanto loro producono le altre provincie, mentre, deducendo le spese di governo, non ne trae più di due o trecentomila lire ogni anno, malgrado l’infame monopolio del grano che essa vi fa e con il quale impoverisce sempre più i suoi abitanti e si fa detestare. Non si sa quale sia l’intera popolazione dell’isola ma quella delle parti possedute dalla casa sarda non è certamente superiore alle 20 mila anime” (Art. 32, p. 161). E i Sardi delle parti interne non tollerano intrusioni nei loro territori: “(…) non commettono mai dei brigantaggi sulle coste e quando vi si commette qualche crimine è sempre da parte di qualche suddito del Re ed infine i soli assassinii commessi dai nativi dell’interno del paese non sono stati perpetrati che per degli ufficiali, degli ingegneri e commissari, incaricati di visitare l’interno di questo paese, cosa che i Sardi non vogliono affatto tollerare” (Art. 32, p. 161). Nei confronti dell’ufficiale col flauto, che si era smarrito andando a caccia, l’atteggiamento e l’accoglienza sono – come si è visto – profondamente diversi. ***Quelle di G. non sono propriamente relazioni di viaggio. Le sue “osservazioni”, al di là delle (inevitabili?) fluttuazioni di pensiero, e al di là delle (inevitabili?) non linearità esistenziali, appaiono guidate da – istituite secondo – parametri piuttosto precisi che cercheremo in breve – molto essenzialmente – di delineare.Ne risultano specifiche modalità di selezione relative agli oggetti di osservazione oltre che specifiche modalità concernenti i punti di vista secondo cui si svolge l’osservazione stessa.Le “descrizioni” riguardano appunto i “costumi” e i “governi”; e la natura di tali “descrizioni” è filosofica, storica e, per così esprimermi, critico-progettuale.Vediamo cosa, per es., si esclude:“Numerosi sapienti e uomini celebri per il loro buon gusto hanno dato particolari sulle ricchezze d’Italia in pittura, scultura, architettura, antichità e musica, e pure sugli oratori, sugli storici, sui poeti, sui letterati, sui sapienti, sulle donne celebri e sulla scoperte di ogni genere che l’Italia ha prodotto. E’ ormai tempo di offrire una relazione tanto vera, quanto piccante sui costumi e sulle forme di governo di questa bella contrada ed è l’impegno che cercherò di compiere in quest’opera.Certamente ho tenuto conto anche dei superbi e tristi resti di questo Impero, degli antichi padroni del mondo, ma pur considerandoli (…)” (Pref., pp. 4-5). Il principio di esclusione e di selezione secondo determinati parametri – tanto di contenuto quanto di punti di vista – darà all’opera del G. una precisa o tendenzialmente abbastanza precisa coerenza, nonchè una coesione, pur nella molteplicità e non di rado capillarità e particolarità delle notizie e delle “osservazioni”: le darà, in sostanza, una “forma”. E tale “forma” è quella di “una vasta galleria” di “bozzetti” che sono “dei ritratti grotteschi, gli altri piacevoli, altri orribili, altri esecrabili, ma tutti fedeli, di personaggi attualmente viventi, o che sono scomparsi da poco e i più interessanti da conoscere” (Pref., p. 6).L’immagine (o ‘immagine-paragone’, quasi si trattasse di un genere letterario) che l’A. sembra voler suggerire, circa il suo stesso lavoro, è quella di un museo, di un’opera-museo, che è d’altronde un ‘museo dell’attualità’: museo, quindi, non storico-diacronico, bensì sincronico (e solo relativamente diacronico: quel po’ di diacronico che è sincronicamente operante, sincronicamente funzionale).Abbiamo a che vedere, insomma, con ‘esperienze’ (ovvero con un’esperienza complessiva e visione d’insieme) che valgono come ‘museo’ ma ‘museo impegnato’; polidirezionalmente e al contempo coerentemente impegnato in una prospettiva socio-politica, militare, finanziaria, esistenziale, di costume, in fin dei conti amministrativa; e che sarebbe di per sè, quantomeno potenzialmente, orientato a ‘trasformarsi’ in progettualità di riforma generale e di governo.Ed in realtà, date le “verità tristi” dell’Italia, il risultato di una siffatta operazione non potrà che “rassomigliare ad un libello” (Pref., p. 6).Se un procedere di questo tipo “ha già eccitato il furore di qualche Grande che la fedeltà dei (…) racconti ha smascherato e consegnato al disprezzo e all’indignazione” (Pref., p. 6), su un altro versante (altro versante della medesima funzione sincronico-analitica e documentaria) l’A. con una certa costanza si propone appunto come consigliere per i governanti stessi. Direi, piuttosto, che ciò è automaticamente implicito nel tipo e nelle modalità stesse dell’operazione; nello stesso ‘stile’ di scrittura.I viaggi, o, meglio, le perlustrazioni del G. vengono in qualche modo a configurarsi alla stregua di ispezioni sulla lunghezza d’onda del sincronico socio-politico ed amministrativo.Si potrebbe persino affermare che quantomeno a posteriori (resultativamente) i viaggi del G. dipendano ‘logicamente’ dall’ispezione; e dal sostrato ideologico-culturale (anche diacronicamente ‘giustificato’: si pensi al ‘discorso sulla danza’) nonchè dai parametri-guida (‘felicità dei popoli’ etc.) che le fanno da supporto.Non è la relazione di viaggio che dipende ‘occasionalmente’ e ‘troppo empiricamente’ dal viaggio; quanto piuttosto sono le relazioni –“ritratti” (ai fini di una “vasta galleria”), secondo presistematizzati parametri e prestrutturati inquadramenti ideologico-culturali, che si configurano come ‘cause’ del viaggio: delle modalità del viaggio e del viaggio stesso come rete di ispezioni.La connessione che viene ad intercorrere fra relazione di viaggio/giornale di viaggio, per un verso, e viaggio, per un altro verso, è – retoricamente parlando – di hysteron proteron: i “ritratti” vengono ovviamente dopo il viaggio; ma lo ‘schema per l’ispezione’ (il sostrato ideologico, filosofico, storico-morale etc.) che seleziona e ‘genera’ quel tipo di “ritratti” viene prima; è di essi la ‘causa formale’. C’è, in sostanza, una a priori struttura di efficacia che produce tramite il viaggio di perlustrazione-ispezione quei “ritratti”, con la “vasta galleria” che ne consegue; e che con le modalità di quei “ritratti” e di quella “vasta galleria” si correla piuttosto direttamente. Il viaggio medesimo viene cioè modellato secondo predeterminati parametri.Chiamerei dunque i “ritratti” di questa “galleria” ritratti d’ispezione: già di per sè orientati (come dicevo), secondo del resto la natura dello schema a priori che li hanno ‘prodotti’, verso operatività di ordine amministrativo e politico-organizzativo, verso trasformazioni riformistiche.Se la “vasta galleria” può avere funzione di suggerimento-consiglio ai governanti (cui fornirebbe prove e capillari contenuti di supporto etc.), in realtà, date le “verità tristi” che il G. denuncia, il racconto d’ispezione non potrà che attestarsi nella posizione del genere letterario “libello”.Facciamo però un piccolo passo indietro. Se il gionale di viaggio al suo ‘grado zero’ (senza cioè troppo marcate prestrutturazioni e intenti preliminari che lo guidano) tende ad assumere tono e modalità eminentemente descrittivi (si potrebbe parlare di ‘stile’ empirico-descrittivo), quantomeno in prima istanza; viceversa, il racconto d’ispezione tende in prima istanza all’effetto conativo: è ad un “tu” che si rivolge coi suoi ‘suggerimenti’-‘consigli’ (prima ancora, coi suoi risultati operativamente orientati); inutile ribadirlo, nel caso del G. il “tu” del racconto conativo sono i governi.Precisato ciò, il genere letterario “libello” verrebbe semioticamente a configurarsi come la ‘faccia nascosta’ del conativo (funzione “tu”) in quanto ‘ridotto’ al descrittivo (al ‘solo’ descrittivo); è una strutturazione di orientamento conativo del racconto (del raccontare documentariamente nonchè ‘ideologicamente’) in quanto si trova deprivata di un adeguato ‘ascolto’ e di adeguate ‘risposte’ da parte del “tu” cui si rivolge (nel caso del Nostro i governanti-amministratori cui egli si rivolge in posizione appunto di “io” conativo). E’ in certo qual modo un descrittivo ‘non primario’ o ‘non di prima istanza’, quantomeno sul piano della gerarchizzazione delle funzioni (dal momento che la funzione principale, o ‘di prima istanza’, è per l’appunto – nel conativo – quella di ingenerare ‘ascolto’ e ‘risposte’ adeguate in un “tu” preselezionato e supposto responsabile); è un descrittivo che ‘deriva’ da uno ‘stile’ (e da un programma-progetto) conativo(-i).Se la descrizione si svolge tendenzialmente alla terza persona (‘assenza’ del “tu” ed ‘assenza’ dell’ “io”), l’ispezione di impostazione conativa si concluderà tendenzialmente con un rivolgersi ‘direttamente’ ad un responsabile, evocato – diciamo così – nella posizione di seconda persona: è questa la funzione-cardine.In altre parole, l’impostazione conativa situa il soggetto d’ispezione nella posizione di un “io” destinatore (in generale e in un certo senso ‘imperativo’, ovverosia ‘di preghiera’) che rivolge il messaggio (messaggio-inchiesta che è anche, in quanto tale programma e progetto) ad un “tu” supposto responsabile (e ‘superiore’) in posizione appunto di destinatario che dovrà (‘costrittivamente’?) divenire attante del programma-progetto (governanti). Il conativo tenderà a tradursi in un causativo: in un far fare.Se la linea di proposta-risposta tra l’ “io” destinatore e il “tu” destinatario del “far fare” (del messaggio-inchiesta) non si realizza, se si resta al di qua della ricaduta operativa, se non si ha ‘contatto’ fra l’ “io” e il “tu”, il conativo si trasforma in denuncia e critica: il messaggio-anche-programma, il messaggio-inchiesta che potrebbe (/vorrebbe) essere un programma di mutamento e di riforma (versante progettuale), si configurerà come possibile atto d’accusa (zona semiotica del “libello”). Si avrà allora la ‘sola’ descrizione, ‘derivata’ per riduzione da un conativo che non trova risposta in un “tu”, supposto responsabile, che si sottrae. L’inchiesta che non trova risposta operativa diventa una descrizione funzionalmente ‘di seconda istanza’, descrizione semioticamente derivata da un (anche se ‘realmente’ preesistente ad un) momento operativo che viene a mancare.E il genere letterario “libello” (più in generale la zona semiotica di appartenenza) ‘nasconde’ l’ “io” destinatore del messaggio-inchiesta (nonchè programma/progetto) dietro l’ ‘oggettività’ (anche diacronico-culturologica, oltre che sincronico-comparativa) dello stesso messaggio-inchiesta. Quel che si evoca è il piano della oggettività, della “verità” delle cose, di una “verità” il cui spessore è storico; e si tratta di una ‘deresponsabilizzazione’ dell’ “io” accusatore (“libello”, descrizione funzionalmente ‘di seconda istanza’), come anche – in fin dei conti – di una ‘deresponsabilizzazione’ dell’ “io” progettuale. Scrive G.:“(…) Senza dubbio molto triste che la storia dei tempi attuali debba rassomigliare ad un libello. E’ colpa dello storico se nel tracciare la storia d’Italia con quella verità che deve necessariamente caratterizzarla egli ha trovato più verità tristi che verità piacevoli da raccontare? E’ sua la colpa se il più gran numero degli uomini esistenti sono incorsi più nell’indignazione di quanto non abbiamo meritato più elogi?” (Pref., p. 6).Come accennavo, i parametri di inquadramento e di elaborazione del messaggio-anche-programma (di quel che chiamerei il messaggio progettuale) sono dati, oltre che dal confronto sincronico (sincronico-funzionale) con altri stati ed altri governi, dal confronto e dal raccordo diacronico-culturologico con l’antico.La conoscenza degli autori antichi – la formazione sulla base dell’antico – diventa così momento non inessenziale del viaggio d’ispezione (o ispezione tout court): è strumento insostituibile (e sostrato-fondamento) in vista del messaggio di analisi-valutazione ‘oggettiva’ (di cui è parte costitutiva ineliminabile); in vista del ‘messaggio progettuale’ ai governanti (funzione conativa).L’insegnamento e i tracciati argomentativi quali possono provenire dai classici antichi non restano, almeno in molti casi, ‘dotta’ citazione o ‘elegante’ termine di paragone. Neppure – tali insegnamenti – sembrano restare in posizione soltanto di garanti ‘dall’esterno’ o di pur autorevoli exempla; la loro autorevolezza è invece (mi pare) ‘direttamente’ coinvolta nel messaggio-programma: nel messaggio progettuale; è marcatamente investita di funzione conativa. Ovverosia, la funzione conativa proviene anche dall’indietro, secondo una prospettiva che tende ad essere ‘universalizzante’: ‘oggettiva’ ed ‘universalizzante’ (enciclopedica?).A prescindere dalle ‘delusioni’ dal reale e dalle assenze di ‘risposta’ al conativo (al messaggio progettuale), è – credo – uno degli aspetti della armonica e ‘totalizzante’ Weltanschauung di impostazione illuministica (o moderato-illuministica).Il parametro che ho definito diacronico-culturologico diventa un metro di impostazione e di calibratura del messaggio-anche-programma (del messaggio progettuale), tanto nelle sue direttive generali quanto nelle sue articolazioni specifiche, da parte dell’ “io” conativo: “io” conativo che non sarà ‘semplicemente’ il G., ma che vedrà coinvolti gli antichi; vedrà coinvolte le “virtù dei (…) padri” (art. 1, p. 33).In altri termini, il metro immediatamente e inevitabilmente soggettivo di valutazione ‘dall’esterno’, da parte di un “io” particolare che analizza e propone, si dà spessore coniugandosi con risvolti ‘oggettivi’, storico-culturologicamente (anche storico-culturologicamente) ‘dall’interno’ delle situazioni e dei contesti sincronicamente analizzati. Si tratta, per la verità, di un “io” particolare che si pone tra parentesi (a vantaggio di un altro tipo di soggetto/Soggetto?) sia sul piano sincronico (‘oggettività’ e ‘scrupolosa accuratezza’ dell’osservazione, metodo comparativo) sia sul piano diacronico-culturologico (conoscenza dall’antico etc.): da qui discende l’ ‘oggettività’ del conativo di G.; del messaggio progettuale – aggiungerei – in quanto tale.Sul terreno del suo ‘ridursi’ a “libello” – del ‘ridursi’ a “libello” del messaggio progettuale in quanto tale, a motivo delle ‘non risposte’, del resto non solo attuali evidentemente –, si situa appunto il duro ed inflessibile giudizio nei confronti di “principi”, “governanti”; “preti” e “monaci”, “uniti” contro il popolo “per allontanarlo per sempre dalle virtù dei suoi padri” (Art. 1, p. 33). ***Possiamo per comodità, ed in sintesi, distinguere tre momenti – fra di loro, è ovvio, strettamente correlati – dell’atteggiamento critico-conoscitivo e conativo di G.: momento di valutazione ‘oggettiva’ (“virtù dei (…) padri” ancora nonostante tutto inerenti e attive – o potenzialemente attive – nel “popolo”); criterio diacronico-strutturale (e diacronico-geografico), oltre che sincronico e di ‘attualità’, nelle valutazioni e nelle analisi, anche di singole ‘componenti’ del costume (per es. funzione e valori della danza); quel che ho chiamato messaggio progettuale, e genere letterario “libello”. Su questi sfondi metodici e contenutistici, valutazione dei rapporti fra “governanti” e “popolo”.Se il G. si propone dunque come viaggiatore-filosofo (un’accezione del termine, o dei termini, che sembra ricondurci piuttosto direttamente alle concezioni illuministiche), proprio l’Italia è paese, a giudizio del Nostro, particolarmente adatto a metterne alla prova e ad esaltane le doti: “Nessun paese al mondo è più adatto dell’Italia per mettere in grande attività le facoltà intellettuali di un viaggiatore pieno di sagacità e degno del titolo di filosofo” (Art. 1, p. 13). Sarebbero la grandissima varietà e le notevolissime differenziazioni fra gli Italiani, anche in brevissimi spazi, a fare dell’Italia il paese meglio in grado di stimolare intellettualmente (ed etnoantropologicamente direi) il viaggiatore-filosofo: “(…) non esiste alcun paese sulla terra dove in una data superficie si vedano maggiori sostanziali differenze fra gli abitanti (…) e ciò è ad un punto tale che a distanza di un solo miglio ogni osservatore attento ed intelligente vi nota delle differenze più sensibili di quelle che si vedono altrove nelle nazioni, anche separate da montagne inaccessibili, da grandi fiumi e anche dai mari” (Art. 1, p. 14). “Ho già detto altrove che ci sono nel mondo delle nazioni che sono l’emblema dell’infanzia, altre della giovinezza, altre dell’età matura ed altre della vecchiaia; l’Italia da sola racchiude tutte le varietà; vi si vedono dei popoli che presentano assai chiaramente i segni di queste differenti età e questo nello spazio di poche miglia; si è pure detto, con altrettanta verità, che ci sono delle nazioni che hanno un carattere maschio, altre al contrario nelle quali gli uomini sono effeminati, altre infine che presentano i vizi e le virtù proprie di talune professioni; tutto questo si può vedere ancora in Italia. Gli abitanti di alcune regioni dimostrano una energia più ricca, mentre quelli di altre regioni dimostrano delle passioni che tengono della natura femminile, altre infine mostrano le virtù e i vizi delle professioni delle quali si occupano. Così l’Italia cambia volto ad ogni passo che si fa, e si notano sul suo suolo modi di fare e maniere particolarmente adeguate ad ogni età, ad ogni sesso e ad ogni professione; si fa dunque un grande errore nello scrivere che esisteva un carattere generale per tutti i popoli d’Italia” (Art. 1, p. 10). A prescindere dai contenuti (che non mi interessano, e che sarebbe a sua volta anacronistico e ingenuo definire antiquati), non sarà forse del tutto inutile segnalare come un analogo schema di ragionamento ricorra in ambito antico e in sede di valutazione naturalistica ‘popolare’ (sebbene non solo). Mi riferisco alla “vulgi opinio” secondo cui “quicquid nascatur in parte naturae ulla, et in mari esse”, “qualsiasi cosa nasca, in qualsiasi parte della natura, si trova anche in mare” (Plin. n. h. IX 2). (3)Allo stesso modo, se seguiamo G., un’ ‘opinione’ in qualche misura analoga sarebbe antropologicamente trasferibile all’Italia: qualunque cosa vi sia, da qualunque parte del mondo, si trova – concentrato altresì in spazi ristretti – anche in Italia.Un modo per riproporre il carattere di ‘universalità’ dell’Italia? Un modo per riproporne la ‘centralità’? Una sorta di ‘centralità’ che possiamo in sintesi definire antropologica? Ovverosia, una ‘centralità’ per così dire ‘universalizzante’? (4)

Note

(*)Il presente scritto è stato pensato come saggio introduttivo a G. Gorani, Descrizioni filosofichestoriche e critiche dei costumi e dei governi dei popoli d’Italia, traduzione e note di commento di Daria De Bernardi, di prossima pubblicazione. Ringrazio la traduttrice-curatrice per l’invito, e per la fiducia accordatami. (1)Per le traduzioni da Luciano faccio riferimento a Dialoghi di Luciano, a cura di V. Longo, vol. II, Torino, UTET 1986. (2)Per le Leggi faccio riferimento alla traduzione di A. Zadro, in Platone, Opere, vol. II, Bari, Laterza 1966. (3)Traduzione a cura di A. Borghini, in Plinio, Storia naturale, vol. II, Antropologia e zoologiaLibri 7-11, Torino, Einaudi 1983. (4)Una posizione che andrà incontrandosi – fra l’altro – con un modello e una prospettiva di tipo ‘enciclopedico’? L’Italia, insomma, come una sorta di ‘enciclopedia’ del mondo? 

Alberto Borghini