Il chicco d’oro

di Vincenzo Capodiferro

IL CHICCO D’ORO

Feste, miti e riti cerealicoli nella valle del Racano

Alla poetessa Teresa Armenti

Ove sei, ruota di mulin terragno?

O savia! Che ti volgi a poca doccia

Bonariamente: e l’acqua brilla e goccia

Di pala in pala a far picciol rigagno.

F. Pastonchi

Premessa

Questo studio, frutto di un’appassionata indagine antropologica tra gli unici testimoni ancora viventi della Kultur contadinesco-frumentaria, al fine di raccogliere, seppure parzialmente, e di salvaguardare tutto quel patrimonio orale – malgrado in via di estinzione – della civiltà agraria nostrana, più che una riproduzione azzeccata del materiale rinvenuto, vuole offrire un’ interpretazione sintetico-critica di quell’insieme di valori, di tradizioni, di costumi e di miti che hanno caratterizzato la vita sociale legata alla magia del grano1.

Oggi, purtroppo, la cerealicoltura è sparita dalle terre, e con essa i druidici mietitori, soppiantati dalla corrente mietitrebbia: ma i loro riti, le formule propiziatorie, le magie, le feste, i racconti, tante di quelle manifestazioni, risuonano ancora nella memoria degli antichi, che almeno fino ad un cinquantennio fa, hanno conservato una tradizione millenaria, offuscata dal velo ombroso della società odierna ed a rischio di essere perduta per sempre.

La festa della mietitura nel bacino della valle del Racano, o più comunemente denominato col diminuitivo Racanello, un affluente misterioso del Agri, o l’antico Achero, è un caso singolo ed affascinante, consistente in una serie di comportamenti codificabili e ragguagliabili in correaltà più ampie. La descrizione del factum rituale, coestendentesi sino alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, dopo di che scomparso, si misura in un angolo oscuro e suggestivo della Lucania sconosciuta, meta prelibata di viaggiatori sette-ottocenteschi, di studiosi, di fotografi, di registi, non è il caso di citare De Martino, Pasolini, Visconti, Gibson ed altri.

La festa della mietitura, così come si celebrava qui a Castelsaraceno, era intimamente connessa con la mitologia e la religione magica. Ho riportato soltanto alcuni aspetti di quel millenario patrimonio nascosto ed inedito della civiltà contadina. La motivazione principale della sua dispersione è ravvisabile principalmente nella discontinuità della tradizione orale delle nuove generazioni, sempre prese da quella corsa verso il vuoto del mondo contemporaneo e dalla incapacità di fondo nel saper codificare ed attualizzare quei temi ancestrali ma sempre vivi nella nostra coscienza collettiva. La Chiesa cattolica per millenni però non è riuscita a distruggere gli antichi riti e le antiche credenze, anzi in un continuo processo di adattamento e di assimilazione li ha inglobati ed intelligentemente trasformati: fino ad un quarantennio fa esisteva ancora nelle nostre terre questa religione sotterranea, che affondava le sue radici nel paganesimo antico; le sue tracce saranno indelebili nel tempo e le si riscoprono talvolta nelle denominazioni toponomastiche e rurali. Ma il distacco dalla terra e dal mondo agro-silvo-pastorale della nostra realtà, oggi non consente più di farci proprio quel panteismo ilezoico ed ilemorfico dei coltivatori, seppure ancora fino agli anni ’80 i braccianti castellani buttavano il grano in segno di acclamazione ai candidati socialisti della Spiga.

Nel contesto che si dispiega tra le pagine sulla magia del grano è di particolare interesse invero il legame che può riscontrarsi tra di questa ed un altro inestricabile mito, quello delle sette sorelle, ovvero dei sette santuari mariani, meta di pellegrinaggi ancestrali. C’è la scuola antropologica dell’Università di Salerno che da tempo si sta interessando a questa peculiarità, ricca di spunti e di filoni per la ricerca, e mi riferisco all’illustre guida del Prof. P. Apolito, cui va il mio più profondo senso di riconoscimento da umillimo filosofuccio qual sono.

L’accentuazione del male da un lato e del lieto fine delle fiabe contadine dall’altro ci presenta e ci indica l’orma indelebile dell’uomo mimico, legato al mondo naturale, alla magia ed al contrasto tra culture opposte: pastori ed agricoltori. Noi attribuiamo questi caratteri a popoli ritenuti sottosviluppati od inciviliti ma non ci accorgiamo delle nostre stesse più profonde radici: esisteva un globalismo dei terricoli che non ha nulla da invidiare a quello moderno.

In ultima analisi vorrei sottolineare alcune tratti comuni, forse taciute nella relazione ma che si riallacciano alle riflessioni or ora esposte ed in particolare l’accenno, a mio parere opportuno ed indispensabile, va alle analogie della festa castellana con simili celebrazioni diffuse in tutto il mondo: ad esempio in Sicilia, in Romagna e nella Lomellina, anzi in alcuni posti sono state riscoperte come a Pietralunga, a Pisa, a Castelnuovo Valdichiana. Il mio auspicio è che anche qui si possa valorizzare questa festa e riportarla in auge. Ma il mio pensiero va soprattutto alle ricorrenze cristiane della mietitura in occasione della Pentecoste ed ancor di più alla festa ebraica di Savuòt, o quella siriaca di Tauz. Nel testo si è accentuato di più il possibile raccordo con le manifestazioni cerealicole dell’antichità classica in un continuo confronto con gli studi antropologici dei grandi che hanno ripercorso il cammino del grano dal neolitico ai nostri giorni. Gli esempi, anche della cultura moderna, non sono mancati, ma non sono tanti, giusto per non appesantire il risultato divulgativo della celebrazione storica di questa festa. Voglio ricordare, a proposito, che a Castelsaraceno ancora esiste una strada denominata “Via della Iurea” (Giudea), purtroppo non esistono fonti o documenti che attestino anche qui la presenza di colonie ebraiche, tanto meno si può azzardare un’ipotesi di correlazione tra la festa ebraica e quella pagana della mietitura qui celebrata.

Si tratta, come osserverebbe Jung, di un antichissimo archetipo, il quale risale allo stadio orale dell’umanità, alla sua infanzia mimica. E nell’ambito di questa psicologia collettiva la pulsione alimentare, legata al bisogno del cibo, è determinante.

Pochi, inoltre, sono gli studi antropologici locali effettuati sulla nostre tradizioni popolari, speriamo che si possa in un futuro prossimo accrescere questo filone con nuovi sforzi.

Un particolare riconoscimento va al Prof. Antonio Capizzi, alla cui scuola mi sono formato, innestandomi in quel canale antiunitario della filosofia storica, inaugurato dal suo Protagora2.

Vincenzo Capodiferro

  1. La festa della mietitura

La festa della mietitura avveniva in genere nel mese di agosto, quando giungeva a maturazione il grano nei paesi di montagna, come Castelsaraceno. Non aveva una data precisa, perché era legata al ciclo naturale della cerealicoltura. L’estrema volta in cui fu onorata, è stato certamente nell’estate del 1939: infatti, secondo la testimonianza di Vincenza De Lorenzo, deceduta proprio nella primavera del 2003, l’ultima Gregna3, venne presentata dal padre in quell’anno. Si trattava di un singolarissimo rito, che forse veniva compiuto solo qui – non si hanno informazioni di questo nei paesi circostanti – tanto è vero che per assisterlo, venivano dai centri viciniori di San Chirico Raparo, Carbone, ed addirittura da Lauria. Ecco come avveniva: alcuni designati per la raccolta della Gregna da utilizzare per la ricorrenza, insieme agli agricoltori, sceglievano liberamente i covoni da presentare, in genere i migliori, quelli più alti. Prendevano le spighe, ne sfilavano la paglia con le mani, in modo che restasse solo l’astuccio. Così preparate le infiorescenze granite, con asse molto lungo, venivano raccolte in mazzi, indi portati in testa da ragazze nella Piazza di Sant’Antonio, ove aveva sede la manifestazione, quello stesso largo, in cui tuttora viene praticato l’altra usanza della N’denna4, avvalorando la tesi che anche la festa della mietitura si svolgesse qui, e che proprio questa parte fosse il centro delle celebrazioni contadine.

In tutta questa prima fase della tradizione, i granicoltori si recavano nei campi e poi accompagnavano i covoni in processione fino al posto predetto. A capo del corteo stavano degli zampognari, cui seguivano le ragazze con le cente (covoni) in testa e poi il resto dei partecipanti, i quali cantavano e recitavano formule propiziatorie. Una volta giunti sul luogo predestinato, vicino alla cappella di Sant’Antonio, uno spiano a margine del paese, fatto allora di terra e ciottoli, sistemavano i covoni in una grossa e spettacolare Gregna, la quale produceva – secondo le testimonianze – , da sola, Tre Quarti di grano5.

Questo maestoso covone veniva decorato con fiori e ghirlande e posto al centro della piazza, poi iniziava il gioco mimico della mietitura: dei falciatori si avvicinavano e tagliavano scenicamente il grano. Presi a scherzo alcuni visitatori della Gregna, di solito forestieri, scelti come vittime, erano testualmente minacciati, sacrificati, uccisi simbolicamente con le falci e presi a calci. Gli anziani dicono che con le punte delle falci venivano sbalzati cappelli e spuntate camicie. In seguito gareggiavano per gioco a chi falciava di più dei piccoli covoni (fissati a terra sul ciottolato con dei sassi), che poi buttavano in aria sempre con le estremità della falcatura.

Secondo altri, intorno ad una bella donna, sulla cui testa veniva posto un covone, si avvicinavano due mietitori, i quali – facendo dei movimenti circolari in aria – le passavano la falce intorno alla testa, gli occhi, le gambe ed il corpo in una sorta di mimesi sacrificale, che si chiudeva con un ballo espressivo.

Il rito in genere terminava con un convivio, in cui si beveva vino in una baccanale gozzoviglia agreste. Alla fine portavano il covone nella Cappella di Sant’Antonio e lo offrivano in voto: infatti il grano prodotto da quello lo donavano alla Chiesa.

Dalla descrizione or ora fatta si presume che in essa venisse rappresentato mimicamente al culmine il rituale sacrificio neolitico del re grano ad opera, nell’ipotesi, di “armati di falcastro”.

Questa festa sicuramente affonda le sue radici nella notte dei tempi, sebbene assieme a quell’altra, del maggio, non sia stata menzionata dal Cirelli nella sua relazione6, come per altri paesi, Rotonda, ad esempio, il che farebbe pensare ad un’importazione delle festività agresti a Castelsaraceno in epoca ottocentesca. Ma ciò è inverosimile e contraddetto dalle testimonianze orali, che in certi casi e soprattutto per gli studi antropologici, sono più attendibili. Evidentemente gli altolocati autori ottocenteschi, quali Arcieri e Candia, non hanno ritenuto opportuno riportare delle festività dei cafoni che hanno visto sempre di malocchio. Il culto del dio grano risale per lo meno al sumerico Ezim, al fenicio Dagon, a Baal e trova la sua massima epifania in Osiride, il dio che muore e risorge, «Io sono Osiride, il giovane grano tagliato,» si dice di lui, ed Attis, la «giovane spiga mietuta». Dumuzi, come Osiride, è rappresentato con spighe di grano che germogliano dalle spalle e nell’iconografia antica molte divinità venivano associate al grano ed al campo: tra le altre ricordiamo Odino, Telepinu, Vishnu, Siva, Baldr, il dio vedico Varuna e nell’area baltica Pergrubio7. I sepolcri del giovedì santo rievocano questa allegoria. Forse il più emblematico tra i riti estivi in cui il dio-grano è ucciso, fatto a pezzi, seppellito, compianto, salutato come risorto è il culto di Adone, descritto in analogia al culto del grano molto bene da Frazer ne Il ramo d’oro8, d’altronde «Attis e Adone corrispondono per analogia ai frutti della terra. Attis, però corrisponde ai fiori che appaiono a primavera, donde gli si attribuì l’evirazione…Adone è invece il taglio dei frutti maturi»9. Frazer cita in età moderna delle usanze che riscontra in molteplici zone d’Europa, dell’India dell’Asia Minore. Ne riportiamo qualcuno. In Pomerania i contadini affilano le falci e circondano lo straniero: «Colpiremo quest’uomo/ con la spada sguainata/ con la quale falciamo campi e prati»10. È il sacrificio neolitico del re del grano che è divenuto simbolico, mimico, e l’uso di nominare re uno straniero di passaggio, che accomuna queste usanze anche al ludus cerealis che si svolgeva a Castelsaraceno. Anche in Valacchia ed in Transilvania «quando una fanciulla porta a casa una corona fatta con le ultime spighe mietute, chiunque si affretta a gettarle addosso dell’acqua»11. È un’altra usanza che si avvicina alla particolare processione delle spighe portata in testa da ragazze fino alla piazza di S. Antonio.

  1. Il ritualismo magico della mietitura ed il mito dell’ ultimo covone mietuto

Arrivato il tempo della mietitura, i capu-mitituri12, come dei maghi con sussurri irenici benedicevano il raccolto, facendosi Tre cruci santi13, dopo dividevano li lavuri14 in ande15, a capo di ognuna delle quali ponevano un mietitore, seguivano dei garzoni che legavano li iermite in gregne16 ed infine altri granicoli che portavano le gregne e le sistemavano in una meta a forma di campana17, in attesa della pisatura18.

Iniziava invero la vera e propria falciatura: i mietitori, poste alle dita le canne (guarnimenti di forma tubolare, in genere di canna, usati per proteggersi dalle falci) ed indossato il pettorale (uno scapolare sul petto per evitare che la falce nel ritrarsi dal taglio potesse colpire il dorso), seguendo le ande, cominciavano a lavorare e si dividevano in cori (di solito due) per il canto rituale o le facezie in botta e risposta, che eseguivano durante il lavoro; così recita qualche verso musicalmente modulato:

I Coro

Chi li vò mete sti lavuri auannu,

mò mi fazzu accampatori ri li gregne.

II Coro

Chi si li vò mete ka si li mitesse,

ra parti mia, he ci vottu focu19.

Od un altro con allusione alla “vecchia”:

E lu cioto ri san Nicola caccia canzoni a li giovani bone.

E nun penza p’a soru ca è fatta vecchia e nisciuni la vole20

Durante lo svolgimento della mietitura venivano recitate o cantate, tra l’altro, diverse razioni – come li definiscono i contadini – tra cui il Ventitré Ore in onore della Passione e Morte de Cristo, la razione di San Rocco, di Santa Lucia, Santa Barbara e Santa Lucrezia. Queste orazioni, in genere, raccontavano la vita dei santi, i fatti ed i miracoli in una versione tutta particolare. La razione di Santa Barbara, padrona del fulmine, ad esempio, propalava che, orfana di madre, la santa fu abbandonata dal padre in un bosco, dove trovò una casa magica e vi crebbe finché il padre non andò a riprenderla per darla in sposa all’imperatore. Ma ella rifiutò facendoli fulminare. Nel Ventitrè ore addirittura alla strofa undicesima c’è proprio una menzione della “macina d’oro”, sarebbe secondo le interpretazioni degli anziani un “mulino che macina oro”. Anche qui il riferimento al mito granario è lapalissiano. Ma c’è di più, perché secondo i fatti riferite da persone anziane, alcuni contadini giravano scalzi per il paese per la questua del grano, che poi andavano scambiare con oro, che donavano alla Chiesa. Questi canti, comunque, sono stati riportati in appendice proprio per offrire al lettore una visione globale del fenomeno magico e rituale del mitico chicco.

Quanto alle tristi cerimonie della mietitura esse risalgono perlomeno al folklore dell’Antico Egitto. Diodoro21 ricorda che i contadini nel tagliare il primo fascio di grano si lamentavano invocando Iside ed anche Erodoto cita tra gli usi degli egizi il canto del Lino22, in omonimia coll’ eroe greco, o di Manero, diffuso pure in Fenicia, a Cipro e presso altri popoli dell’Asia Minore. Nella Frigia l’analogo canto era chiamato Litierse23. Si può notare la trasposizione nella religiosità cattolica dei due grandi temi della dea terra vergine e madre e del dio grano che muore e risorge. Non per puro devozionismo i contadini cantavano il canto della morte e passione del Cristo. Il Cristo è il Cristo-Osiride, che viene fracassato, macinato per poi rinascere come verbo incarnato. Santa Barbara è Persefone. Santa Teresa, rappresentata dalla pietra-dolmen venerata dai contadini in contrada Fiumicello, proprio all’imbocco di quel figurato ingresso nel regno degli inferi, lo Strettolo, è Demetra, la Dea Madre delle messi. Nell’Antica Grecia Demetrouloi erano detti i canti per la mietitura. L’uso, poi, di bruciare i raccolti, cantato dai contadini, forse ricorda i ludi ceriales, nominati da Ovidio nei fasti24. Analogamente nella vendemmia è il Dioniso, morto e risorto come vino. Teniamo presente, infatti, che greca era l’antica città di Planula, distrutta dai Saraceni nel 1031, a fondazione del novum castrum, che poi fu chiamato Castelsaraceno. Oltre all’influsso gravitante sull’area mediterranea dei coloni greci, però, adoratori di Zeus, Era, Dioniso, Atena e di Ercole Achero, ed Achero anticamente veniva denominato il fiume Agri, che come gli altri, era navigabile, dunque un canale di comunicazione, non solo per i conquistatori, gli studiosi locali non hanno mai tenuto conto delle possibili commistioni con le vicinissime popolazioni indigene Řş-şvǎş, abitanti sulle alture di Roccanova. I Řşvasini adoravano la dea Rea, Osiride, Ammone, Iside, Fta-Sokar, una divinità della terra e Khonsu, la luna. Dovrebbe trattarsi di un popolo indoeuropeo, diramatosi dai Vallindi o dalle orde di Cetthim, pronipote di Noè. La loro regina Artemis, la cui tomba è stata ritrovata nella necropoli, sempre in Contrada Serre, è rivolta come le altre verso il sole-Ra. Rimase vedova, poiché il marito cadde in battaglia. Così canta una nenia:

Cenere raccolta dai raggi del sole,

portata dai cigni bianchi di latte,

cospargi le zolle dei prodi nella lotta

in difesa delle mura custodi dei giusti.

Iside splenda nella notte.

Khonsu rischiara le notti.

Indra disperdi nell’uragano i nemici.

Varuna governa con ordine il mondo25.

Più che una storia reale, a parere, risulta invece un prototipo stilizzato del matriarcato neolitico, in cui la regina sposa il re che poi verrà sacrificato, in questo caso sul fiume Achero, allusione all’Acheronte, dunque al regno degli inferi. La regina diviene poi dea, ed il nome Artemis rimanda chiaramente ad Artemide, «dalla regina che porta al trono il proprio figlio nasce la dea madre, da quella che fa re lo sposo si sviluppa la dea vergine. Legata, come la regina neolitica, alla luna, l’adorazione pastorale per la luce che sorge»26, prima di cedere il posto al re degli invasori nomadi pastori, adoratori, come abbiamo detto, della luce, e per l’appunto ai Pelasgi e agli Ausoni, che conquistarono Řş-şvăš. Torniamo per ora alla trattazione del mito dell’ultimo covone.

Mentre cantavano, iniziavano la vera e propria gara tutti i mietitori delle fila: chi arrivava per primo alla sua anda, buttava in aria il covone con la punta della falce, augurando che quanto in cielo fosse arrivato, tanta potesse essere alta la meta, indi si sedeva ed aspettava gli altri. Una volta arrivati tutti, si festeggiava e si beveva. All’ultimo arrivato era destinato l’ande ra cora27 in uno scontro frontale fino all’arrivo all’ultimo covone, il quale era considerato portatore di buon augurio. Tale il fatto che a parere di alcuni, i capo-mietitori od i proprietari del campo ponevano sugli ultimi covoni mietuti, allora 500 lire, li buttavano in aria e li davano in premio ai vincitori. Chi riusciva a falciare l’ultimo covone, infatti, lo portava in casa come un trofeo e lo esponeva, una volta ripulito della paglia e decorato, in vasi o portafiori.

Analogamente nella maiscoltura il primo che riusciva a raccogliere la spiga rossa (cioè più rossiccia rispetto alle altre di color arancio) doveva baciare tutte le ragazze che gli piacevano o –per altri testi – in una sorta di rituale mimico i giovani raggiungevano in corsa le fanciulle che scorazzavano lungo i campi prima di farsi acciuffare. Anche in questo caso, il tutto si concludeva con una festa in cui si consumavano le spighe cotte o arrostite.

L’ultimo covone veniva denominato «la madre del grano», ed anche qui Frazer ci illumina attribuendo a Demetra questo profondo significato. Citiamo, a proposito, dei modelli eventuali, tratti proprio dallo studio dell’illustre antropologo inglese, nella Stiria «da questo fascio si estraggono le spighe più belle, si intrecciano dei fiori per farne una ghirlanda e, con essa, si incorona la ragazza più carina la quale si reca poi dal fattore o dal signorotto del paese, dove la madre del grano viene riposta nel fienile per tenere lontano i topi. In altri villaggi dello stesso distretto, alla fine della mietitura la madre del grano viene posta in cima ad un palo che due ragazzi portano per il paese, preceduti dalla ragazza inghirlandata, fino alla casa del signorotto; questi riceve la ghirlanda, che appende nell’ingresso, mentre la Madre del grano viene deposta su di una catasta di legna, intorno alla quale si svolgeranno poi il banchetto e le danze del raccolto. Dopo di che, la si appende nel granaio dove rimarrà fino alla fine della trebbiatura; e l’uomo che dà l’ultimo colpo di trebbia è chiamato figlio della madre del grano, e viene legato al fantoccio, percosso e portato per tutto il villaggio. La domenica successiva si reca la ghirlanda in Chiesa, come offerta»28. È impressionate la somiglianza di questi riti con quello solennemente celebrato a Castelsaraceno, per comprender ancora di più tale nesso si propone un significativo passo del Capizzi, che riprende senza dubbio questa concezione: «Questa dama bianca dei campi, e con essa tutti i riti funebri dell’ultimo covone, a partire dai più antichi come il mito di Litierse, che sfidava i viandanti a una gara di velocità nel mietere, in cui il perdente sarebbe stato ucciso… ma anche e soprattutto le gare tra i contadini attuali per non essere gli ultimi a finire di mietere… l’usanza di dare premi in grano ai vincitori delle gare elusine, ed infine la diffusa superstizione dei contadini moderni che chi coglie l’ultimo covone morrà presto e chi lega l’ultimo fascio morirà entro l’anno; tutto questo plesso mitico-rituale… ci conferma nell’opinione che nel neolitico il nuovo re fosse …. il contadino che arrivava ultimo nella gara di mietitura, che cioè si trovava a dovere ancora tagliare l’ultimo grano della porzione di terreno a lui assegnata quando tutti gli altri avevano già finito il lavoro nelle proprie. Uccidere per essere a sua volta ucciso dopo un anno di regno: questa la sorte del falciatore troppo lento al tempo dei dolmen. Il folklore contadino, pur avendo trasformato la «cultura del sangue» in cultura delle feste, lascia trasparire in ultima analisi il pervicace tradizionalismo della gente dei campi che, pur avendo conservato per cinque millenni certi temi mitico-rituali, non smette di stupire lo studioso di antropologia proveniente dalle mutevoli e frenetiche aree cittadine. È difficile trovare altrove un tesoro di reminiscenze preistoriche così prezioso e così significativo. Il neolitico, per certi lati, è ancora sotto i nostri occhi»29.

  1. Le celebrazioni in occasione della semina del grano e l’analogia del grano che muore e risorge

Un altro rituale di importanza antropologica, a mio avviso, è costituito dagli atti che i contadini svolgevano il giorno dei morti: intanto è accertato da molte attestazioni che i seminatori benedicevano con delle formule magiche la terra, prima di iniziare i lavori, e che squadravano lo stesso il terreno in file, dove buttavano il seme con l’ arco della mano. Pure questa è una consuetudine antichissima, registrata presso molteplici popoli. Riporto, solo per arricchire questo motivo, le Parole del seminatore, tratte dal Kalevala:

Ecco io semino inchinato,

fra le dita del creatore

fra le mani onnipotenti,

perché spunti il seme e cresca

dalle selve dissodate.

Vecchia che stai sotto terra

genitrice del terreno!

Fa’ l’erbetta che germogli

che robusto il suol produca:

mai mancò forza alla terra

mai, nel volgere dei tempi,

se la grazia sarà concessa,

dei celesti la promessa.

Lascia, o terra, il tuo dormire:

sorgi, o prato, dal sopore:

steli veggansi apparire

e dal gambo spunti il fiore:

sorgan spighe a mille a mille,

si disperdan foglie a cento

dal mio campo lavorato,

con fatica seminato.

Ukko, Ukko, dio supremo,

padre che nel cielo stai,

delle nubi reggitore

e dei nuvoli signore!

Sulle nubi tien consiglio

E dai nuvoli decidi.

Dall’oriente manda nubi,

denso un nembo da grecale,

altre ancora da occidente,

spingine da mezzogiorno

pioggerella giù dal cielo,

goccia e miele dalle nubi,

sopra l’orzo verdeggiante,

sulla spiga sussurrante30.

La vigilia del giorno dei morti, poi, i gualani prendevano per ogni defunto una ionda di grano e la deponevano in un sacchetto, che poi il 2 Novembre donavano in Chiesa assistendo alla solenne celebrazione dei defunti. Non era raro in questo giorno trovarsi delle montagne di grano nel tempio sacro, in un tempo in cui, almeno fino alla prima metà del novecento, il prezioso cereale era moneta di scambio e per ogni giornata di buoi per le maisi31, le figlie dei contadini erano costrette a restituire in forza lavoro agli aratori sei giornate ad attaccare le iermite dietro i mietitori.

Il legame però tra morte e magia del grano si può più profondamente ragguagliare nel rituale funebre contadino: quando qualcuno moriva ed era stato sepolto, nella casa del defunto si poneva su di un tavolo, per tre sere consecutive, un bicchiere colmo di chicchi con al centro una candela accesa, dell’ acqua e del pane, successivamente si recitava il rosario, e alla fine teneva dietro tutta una serie di comportamenti ritualizzati, come il lutto, compreso il lamento funebre, già ampiamente descritti dal De Martino32.

Ma ancora più peculiari sono le leggende contadine legate al passaggio, dopo la morte, del fiume Giordano, ovvero di un presunto lago, o meglio del Fosso dei Morti, che era localizzato sotto la campagna di Ruspagano33, un’orrida gola, scavata dal torrente Racanello tra le montagne di Raparo e di Castelveglio. All’ingresso di questo erto canale v’era – secondo le più antiche documentazioni – una cappella dedicata a Santa Teresa, e su di una roccia antistante era scolpita sulla pietra una statua femminile, da molti attribuita alla Madonna, ma forse rappresentante un’antica divinità pagana, molto venerata dai contadini. Altre fonti asseriscono che questa roccia fu inghiottita dalla terra, il che è comprensibile, trattandosi di una zona franosa, con tutta la cappella. Tra le altre denominazioni toponomastiche rurali più importanti ne cito solo alcune per rendere più ampia questa considerazione: il bosco di Favinu, dai fauni, e li Firuni da Feronia, altra divinità dei boschi, ma anche il nome della vergine Giunone, la Iuno Virgo, quae Feronia dicebatur34. Ogni porzione di terra, ogni contrada partecipava di questo panteismo e di questo rapporto intrinseco con la divinità.

Ad accreditare questa assunzione del trasbordo dei morti dallo Strettolo, rivolto a nord, verso il Monte Raparo, pertanto magicamente verso il punto cardinale più oscuro e misterioso, è l’uso dei castellani, almeno fino agli anni cinquanta, di farsi dire la Messa del Buon Passaggio, forse alludendo a questo mitico transito. Il legame ancora molto stretto tra morte-risurrezione e grano che muore e risorge è tuttora visibile nella consuetudine, nel settimo della morte, di distribuire ai fedeli, dopo aver fatto benedire nelle ceste, dei piccoli pani, da consumare in memoria ed onore del defunto recitando un Pater.

L’ altra grande festa neolitica dello spuntar del grano, sembra che fosse celebrata il giorno di San Giuseppe, tuttora nei vicinati del paese si fanno dei gran falò con ginestre, concludendo il tutto con raduni bucolici rionali. Questi fuochi sono in consonanza con i più conosciuti falò di San Giovanni, molto diffusi, con tutte le implicazioni antropologiche connesse.

Questa promiscuità tra i riti cattolici e i riti pagani, legata alla religio cerealis, di cui in seguito si chiarirà la portata, è ancor più evidente nel fatto che in occasione delle processioni in onore dei Santi Patroni Rocco ed Antonio si portava in testa il frumento, raccolto con una questua e donato liberamente. E non solo, con le stesse spighe poi si formavano delle decorazioni che venivano trasportate, sempre sulla testa, durante tutto il percorso processionale in genere da donne: le cosiddette Cente (le quali erano fatte sia con le spighe che con le candele). Addirittura anticamente, quando, seguendo una tradizione millenaria, molti fedeli si recavano pedibus calcantibus, impiegandovi sei giorni, alla Madonna di Novi Velia, l’ antica Elea, colonia focese, fondata in Lucania nel 540 a. C., portavano grano ed animali, che poi donavano al Santuario. Elea, la romana Velia, era sede dell’illustre scuola di Parmenide, Zenone, Melisso, in pratica degli adoratori dell’Essere, che si opponevano ad Eraclito, l’impenetrabile profeta del Divenire, ed anche di una scuola medica, che poi passò a Salerno. Il Monte Sacro, il più alto del Cilento, immerso in una lussureggiante natura, o Monte Gelbison, nome che gli fu dato dai saraceni e che significa “monte dell’idolo”, era sede di un santuario dedicato ad Atena, o Hera, e si trova nel noto triangolo che collegava alla Vergine di Monte Partenio, cioè al Tempio di Cibele ed all’Heraion di Paestum, ove la dea del melograno diviene la Madonna del Granato. Il plesso sacro apparteneva alle famose «sette sorelle» o più che altro alle sette Madri, ove i pellegrini agricoltori si recavano annualmente a rendere omaggio alle divinità. L’attuale sancta fu eretto nell’XI secolo come ricovero di devozione, ma, probabilmente, gli abitanti di Velia, fuggiti dalla città invasa dai Vandali, portarono l’idolo di Atena, che si trovava nel tempio ionico, sul quale poi fu edificato il castello normanno, sul monte35.

Questo struggente l’innesto sulla religione cattolica degli antichi miti contadini si può riscontrare già nelle parabole granarie e viticole del Nuovo Testamento, dove più volte l’uomo è paragonato al chicco di frumento, che deve cadere a terra, morire e poi rinascere. Ma c’è un’infinità di divinità che muoiono e risorgono proprio in riferimento alla neolitica annuale morte e risurrezione del re grano, ricordiamo, come prima, e giusto per chiarire tale elevazione, Osiride, Dumuzi, Dioniso, Baal, Baldr, Njordhr, Giacinto, Mitra e tanti altri. Nella religione azteca il dio del frumento è Yum-kaz. Cambiano i nomi, però non la sostanza. Il cristianesimo non ha fatto altro in questo caso, che perpetrare e trasfigurare questa soffusa e sotterranea religione. Ecco perché i pagani si convertirono subito, non solo per un atto di obbedienza verso l’imperatore, ma anche perché riscontrarono proprio nel Cristianesimo quegli antichi contenuti religiosi, solo sostituendo le divinità con le effigi dei santi e delle madonne. Si noti un lamento sumerico per la morte di Lil, risalente alla dinastia di Isin:

Un homme qui jouisse de la vue je ne suis plus.

Le lieu où je repose est la poussière de la terre; parmi les méchants je repose.

Mon sommeil est angoisse; parmi les ennemis je demeure.

O ma soeur, de ma couche je ne puis me lever.

Que ma mère, qui est tournée vers moi, délie le silah36.

È coinvolgente la somiglianza di questi canti con i lamenti dei contadini per i propri morti. Il silah o simlah, donde deriva il nome simulacrum, è il doppio del morto che può rivenire tra i suoi. È convinzione accertata, come per i popoli primitivi, a Castelsaraceno, aver creduto, almeno fino alla fine della civiltà agricola, a questo larvale continuità del rapporto tra vivi e morti. Si donava simbolicamente il pane e l’acqua per nutrire giustappunto ancora nell’altra vita l’anima mortui. Vi sono molte leggende di visioni di morti apparsi ai vivi. Soprattutto si credeva, come riferiscono le testimonianze alle umbre, o “paure”, che potevano essere viste in stato di schiettezza, o ai “mamoni”, da Mammona, sorta di fantasmi demonici. Addirittura alcuni raccontano che ignare le vittime potevano essere sorprese da queste apparizioni e morire per lo spavento. In una sera, in particolare, questa convivenza era sentita, pareva che si aprissero le porte degli inferi, dove i morti riposavano per poi rinascere. Un’antica leggenda narra, infatti, che durante la notte del 2 novembre, a mezzanotte, i morti si radunassero in Chiesa per la celebrazione della messa e nessuno dei vivi poteva accedervi. Capitò che una signora inavvertitamente sentita la campana entrò in Chiesa, ma non ne uscì più viva. Ciò era molto più naturale quando le Chiese, e le cripte, fungevano da cimiteri. Era pure credenza che le anime dei morti prendessero varie sembianze, quasi come in una specie di metempsicosi, in serpenti parlanti od altri animali, come ad esempio la volaredda, una farfalla notturna che era vietato uccidere proprio per questo motivo. Era, inoltre, vietato alle donne incinte assistere all’uccisione delle bestie, come i maiali, proprio per evitare che lo spirito di quelle entrasse nell’utero e contaminasse il nascituro. Come pure si dovevano mettere delle monete nella tasca del morto o dei bastoni tra le mani affinché potesse attraversare il lago pagando il barcaiolo, con allusione evidentemente al demone etrusco Caronte, od al famoso nocchiero dei morti, una divinità psicopompa, designata con diverse denominazioni, a partire dal Anubi egizio, i Dayats lo chiamo Templem, Telen o Kaj, in Nuova Guinea Tuhneng, i Figioni Mbulu, come riferisce il Söderblom37. Sono tutte verosimiglianze queste che ci fanno pensare che tali leggende più che perdersi nei meandri della fantasia, come la maggior parte dei cultori crede, siano simboliche reminiscenze degli antichissimi miti legati al costume della tradizione cereale.

  1. Tracce del tema della regina-terra nella mitologia contadina castellana

L’ idea della terra, vergine e madre e della sua ierogamia col re grano è presentissima nei miti contadini locali, il problema sta piuttosto nei rapporti – scrive il De Martino – tra cristianesimo cattolico e paganesimo delle campagne nei venti secoli di storia cristiana dell’ Occidente. Si rimarchi all’uopo la descrizione che Carlo Levi fa del villaggio meridionale, la quale ci offre, a parere, un’immagine veramente azzeccata di tale realtà: Tutto per i contadini ha un doppio significato. La donna-vacca, l’uomo-lupo, il barone-leone, la capra-diavolo, non sono immagini particolarmente fissate e rilevanti: ma ogni persona, ogni albero, ogni animale, ogni oggetto, ogni parola partecipa di questa ambiguità…. Nel mondo dei contadini non c’è posto per la ragione, per la religione e per la storia… perché tutto partecipa della divinità,… tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dei del villaggio38.

È bene ritornare col pensiero in questo contesto al pellegrinaggio di Novi Velia, perché il discorso che ha incuriosito per anni gli studiosi è: come mai da Castelsaraceno si recassero proprio a Novi Velia? È un caso strano che sarà sviluppato in un prossimo studio a parte, per il momento presento una delle versioni delle «Sette Sorelle» dell’antica Lucanìa, che inglobava in questo senso anche il Cilento. C’era un canto popolare che ho riportato in parte:

Iamu a lu Monti

E ki ci vò venire

Genti a forza

Nunni vau pigliennu

Nun ci cririti

Ka muriti hi seti

Ogni capu ri via

Nc’è na fundana

Mbera a stu pettu

Nc’è na fundanella

Chiù thi ci lavi

Chiù ci pari bellu

Iamu a lu Monti

E ki ci vò venire

Pi ghìj a truvà a Maria

Sopa u mond’i Noia

Sopa a stu monti

Nci stài na gran Rigina

Chi ci vol vinini

Tutte accuglierà39

Descrive un po’ il rito di accoglimento e poi la salita al monte Gelbison, la quale avveniva dal retro di Rofrano. I pellegrini seguivano l’abluzione ad una fontana e procedevano scalzi attraverso un bosco, detto “del Signore”, cui era contrapposto quello “del nemico”, con evidente allusione al diavolo, fino al santuario, attorno al quale giravano tre volte in senso orario prima di entrare cantando. Un particolare: al ritorno uscendo dal santuario procedevano a marcia indietro con il volto rivolto sempre alla Madonna. C’era un’altra cantilena che seguiva i grani della corona del rosario, o, secondo altre testimonianze, le tredici stelle della corona della Vergine. Questa nenia veniva formulata così:

Una è la stella

Una è la colonna

è bella’ sta madonna

che quante grazie fa

E due so’ le stelle

E due so’ le colonne…

Fino al numero tredici. Una particolare versione di questo canto era:

E setti so li stelli

E setti so li surelli

è bella stà maronna

pì quande grazi fa40

Ed un altro recitava così:

Quand’è bellu stu monde

Cu sti stelli ‘ndurno

È bella sta maronna

Pì quande grazi fa

Quando sì bella

O matri mìa

Dulci Marìa

Stella ru mari

Maria ru monti

Li grazii so belli

Nu giru ri stelli

Ri tanda curona

Iamu a lu monti

A prigari la rigina

Ci vogliu stà vicina

Ki gioja chi sarrà

E quannu è l’ora

Ch’io arriv’a casa

Io non ci traso

Senza ri te41

La teoria delle «sette sorelle» dell’antica Lucania ha succitato molte perplessità negli studiosi. Ora le testimonianze su questi sette monti che si guardano l’un altro sono discordanti. Io ho provato ad accertarne una modellizzazione attendibile in modo da darne una espressività mitico-scientifica. Si tratta naturalmente solo di una teoria, pertanto suscettibile di ulteriori revisioni e sottoposta, come ogni altra, al principio della fallibilità. Secondo la testimonianza di Maria Ciancio, un’anziana di Castelsaraceno che ha sempre partecipato al pellegrinaggio al Sacro Monte fin da piccola, e riporta anche la tradizione orale della madre, i sette santuari sarebbero in ordine: Novi Velia, Sirino, Viggiano, Raparello, Anglona, la Bruna di Matera e la Madonna del Buon Cammino di Altamura. Altri includono la Madonna del Pollino e La Madonna del Carmelo, che potrebbe riferirsi al Monte Carmine di Avigliano od addirittura, il che è inverosimile, al Monte Carmelo, in Palestina. La leggenda delle sette sorelle appartiene ad un simbolismo che va oltre l’area della Basilicata ed a parere a quella antichissima religio cerealis del mondo antico. Tanto per fare un esempio riporto una mitologia cinese sul tema, tratta da La natura di Yue Dai Yun:

Nella provincia di Yunan, nel sud-ovest della Cina, le montagne si estendono a perdita d’occhio, lungo l’altipiano. Laggiù, il famoso Monte Wumeng si eleva con i suoi 2800 metri d’altezza. Tra queste montagne verdeggianti vi è una vallata attraversata da un fiume limpido. Lì si trova la città di Guìyang, il più piccolo capoluogo di provincia di tutta la Cina. Io sono nata in questa bella città. Avendo vissuto in questa regione di montagna, mi ricordo sempre di quando, affacciata alla finestra, contemplavo il Monte delle Lumache, dal colore grigio-azzurro. Sin dall’infanzia ho saputo perché questo si chiami così. Il nome viene da una leggenda, insieme bella e triste, che conosco a memoria. Allora, le persone, non smettevano di raccontarla, mentre d’estate prendevano il fresco sotto un albero millenario di biloba. C’erano una volta sette sorelle che vivevano in questa vallata. Erano tutte belle, quanto intelligenti. Preso dalla loro grazia, il principe-serpente che viveva sulla montagna decise di inviare le api ad annunciare il suo desiderio di sposarsi con una di loro. Giunte alla casa delle sette sorelle, le api si misero a cantare: bzz, bzz, bzz… il principe ci manda come mediatrici. Offrirà una carrozza carica di cipria e rossetto e lingotti d’oro e d’argento, e stoffe di seta e di raso. Vuoi tu sorella maggiore degli Zhang venire con noi? La maggiore rifiutò la proposta col pretesto che era troppo impacciata per arrampicarsi fino alla montagna. Allora le api cantarono la stessa canzone alle altre sorelle. La seconda rifiutò perché le sorgenti della montagna erano troppo fredde, mentre la terza aveva paura dell’oscurità dei boschi. La quarta perché le rocce erano troppo scoscese; la quinta non volle allontanarsi dalla sua famiglia, la sesta aveva l’orrore dei serpenti. Quando tutte stavano per scacciare le api, la settima, la più giovane, le trattenne42.

Si possono notare anche in questo racconto dei tratti accomunanti a seconda delle tematiche più ricorsive: le montagne, le sorelle, il numero sette, il serpente-principe, su cui torneremo nell’appendice, ove è riportata la leggenda del re Scorzone. Anche nella leggenda lucana una delle sette sorelle era la brutta, la “nera”, rappresentata dalla madonna di Viggiano che il principe prende in sposa, proprio come nel racconto di cenerentola, o del brutto anatroccolo. Nella mitologia maya le “sette sorelle” indicavano le sette stelle della costellazione dell’Orsa Maggiore e sette montagne rappresentavano la trasposizione in terra della mappa celeste. Anche nella religione incaica, nella processione dei fedeli a Cuczo, giravano per due volte attorno alla divinità e non osavano mai distogliere lo sguardo da essa, con delle modalità che molto assomigliano ai rituali presi in esame riguardo al pellegrinaggio al Sacro Monte, come ad esempio al fatto che nel ritrarsi dalla cappella, andavano con lo sguardo fisso all’effigie sacra. Le offerte nella religione incas erano fanciulli destinati al sacrificio che venivano portate su montagne sacre, considerate «porte del cielo»43. Sulle difficoltà e le “prove”, che i pellegrini dovevano affrontare nella salita alla montagna sacra, molte analogie si possono riscontrare nel Mahâbhârata indo44. Ci sono dei racconti a proposito di sacrilegi puniti dalla Vergine ed in particolare lungo il faticoso tragitto di salita sussiste una pietra con scolpita un’orma di cavallo, dove si buttano delle monete. Secondo la tradizione vi fu catapultato un duca che aveva oltraggiato la madonna con tutto il suo cavallo, donde il nome preta ru ruca45. Ed ancora, raccontano, che per avere un uomo di dubbia morale dubitato della castità delle verginelle consacrate, che portavano al santuario in testa le cente, la madonna fece cadere su tutti i pellegrini una tempesta, che fu placata solo con le molte preghiere dei fedeli, riparatisi alla buona sotto il frascume dei boschi dirimpetto al santuario. Si tratta evidentemente di una concezione animistica, panteistica ed ilezoica della natura, incentrata su delle qualità o volontà fisionomiche attribuite al vitalismo esteriore dei fatti, ma ciò che interessa è la rigorosa pietas, osservata dai salitori del monte. Non è il caso di dilungarsi più sull’analisi comparata dei miti e dei riti legati alle montagne nelle religioni, nell’antica Grecia, ad esempio, l’apoteosi di questa epifania sacra era il Monte Olimpo, presso i Sumeri antichi la “montagna della vita” era il Kur, che era anche la “montagna dei morti”46, è opportuno però soffermarsi ancora una volta sull’antico Egitto. La piramide, infatti, era la stilizzazione della montagna sacra: «il triangolo sovrapposto al quadrato e terminante in punta è nella tradizione occulta il segno trinitario della vita, sovrapposto al segno quaternario dell’universo e dei suoi quattro elementi»47. Ma oltre a questo bisogna prendere in considerazione la tesi di Bauval, secondo la quale le piramidi di Giza rappresenterebbero una trasposizione terrestre della cintura di Orione48. Quantunque queste teorie vadano sempre prese coi piedi di piombo, si potrebbe ipotizzare anche per la localizzazione dei santuari mariani delle “sette sorelle”, così come essa è stata riportata dalle testimonianze, e mi riferisco, in particolare a quella di Maria Ciancio, nata a Castelsaraceno il 04/10/1932, un rappresentazione grafica della costellazione dell’Orsa.

Monte Sacro____Viggiano

│ │ Altamura

│ │ Bruna-Matera

Monte Sirino____Raparello_______Anglona-Tursi

La costellazione dell’Orsa, nei miti antichi, rievoca Crono, cui si attribuiva il merito di aver insegnato a sfruttare la fertilità della terra, ad usare la falce ed a potare la vite. Non ci si dilunga a riprendere queste mitologie, già note. Un altro mito la associa alla ninfa Callisto, tramutata in orsa. Per i latini richiamava il tempo di Saturno, l’età aurea. Essi chiamavano il gruppo dell’Orsa septem triones, i sette buoi che arano la terra, proprio ad immagine che la configurazione di queste stelle intorno al polo aveva suggerito e d’altronde la parola settentrione deriva proprio da questa espressione, come anche la parola artico deriva dal greco ‘άρκτος, che significa orso. E tanto più, come asserisce un noto studioso, Giorgio de Santillana, che le Sette Stelle dell’Orsa «sono punto di riferimento obbligato in tutti gli allineamenti cosmologici sulla sfera stellata. Queste stelle dominatrici dell’estremo Nord sono legate in modo singolare, ma sistematico con quelle che vengono considerate le potenze operative del cosmo, cioè i pianeti, nel corso del loro moto in diverse disposizioni e configurazioni lungo lo zodiaco. Gli antichi Pitagorici, nel loro linguaggio cifrato, chiamano le due Orse “Mani di Rea”, la Signora del cielo rotante, e i pianeti “cani di Persefone”, la Regina degli Inferi…»2. Il riferimento, dunque, ad una velata interpretazione cosmogonia arcaica è indubbio, ed in particolare alla concezione del tempo ciclico, legato alla famosa macina del mulino di Amleto, su cui torneremo in appendice a proposito del Ventitré Ore, Canto popolare della morte e passione del Cristo, ove si accenna ad un mulino che macina oro. E poi la «similitudine dei buoi che vengono fatti girare attorno alla macina non è estranea in occidente: essa sussiste ancora…grazie al latino Septentriones, i Sette buoi da trebbia dell’Orsa Maggiore»3. Stante poi a questa favolosa trasposizione il famoso Giordano, o passaggio segreto dei morti, il quale porta all’Achero, l’Achero, l’Acheronte – l’Agri -, passerebbe in mezzo ai santuari, ovvero in mezzo alle stelle dell’Orsa. Anche qui si presume che le regioni infere siano precise località celesti. È come se la terra fosse una mappa capovolta del cielo. Questa non è una novità, perché per gli antichi il cielo è da considerarsi organicamente in un totus solistico con la terra. Già Pitagora denomina La Galassia Ade, o luogo delle anime, ed Omero dice che le anime discendono sulla terra dalle porte del Nord, le porte del Sud, invece, sono destinate solo agli immortali. Il neoplatonico Numenio di Apamea aggiunge che esse passano dalle porte del Sole, ovvero dalle congiunzioni equinoziali e solstiziali del Capricorno e del Cancro4. Non ci dilunghiamo oltre in questo discorso, seppure interessante, per dar spazio invece alla continuazione del presente lavoro, riprendendo dal tema della terra madre e dai riti arborei.

Era uso comunque girare a turno tutte e sette le madonne in pellegrinaggio. A quello di Novi Velia, che avveniva ed avviene sempre il 25 giugno, e si parte il 24, giorno della nascita di San Giovanni il Battista, data legata per tradizione ai riti cerealicoli che abbiamo preso in esame, la popolazione accompagnava i pellegrini dal paese fino alla località “Piano dell’erba” ed al ritorno lo stesso, ancora oggi va ad incontrarli, seguendo una processione con l’effigie della madonna sino alla Chiesa Madre.

* * *

Castelsaraceno era famoso in particolare per la nutrita presenza di Mascjari, o Magari, specie di stregoni che celebravano riti occulti, fatti passare dai cristiani per forme di satanismo o di fatturazioni varie, i quali erano anche esperti medici nell’uso delle erbe e piante medicinali, quasi come i druidi celti. Il culto della dea terra vergine secondo il rito invernale e madre secondo quello estivo è altrettanto antico e diffuso ancora di più in tutto il mondo già dalle neolitiche statuette. Ricordiamo le sue epifanie in alcune manifestazioni più significative. Apuleio nelle Metamorfosi fa dire all’iniziato ad Iside: «i Frigi… mi chiamano Madre degli Dei… gli Attici Minerva… I Ciprioti Venere… I Cretesi Diana… I Siculi Proserpina; gli abitanti dell’antica Eleusi Cerere… alcuni Giunone, altri Bellona, altri ancora Ecate»49, poi Isthar , Anahita, Cibele, Semele e tante altre. Tornando al tema della ierogammia col re grano essa è gia presente nel Carnevale, erede dei Saturnali. Qui a Castelsaraceno si può rievocare la processione delle maschere, dette farze50, a seguito di due pupazzi trasportati su di un asino, nominati Carnuvaro e Quaremma. Queste maschere giravano per le case e raccoglievano vettovaglie, cantando con lo strumento del cupi cupi – una specie di tamburo con pelli animali su cui era fissata una cannuccia che sfregata produceva un suono cupo monodico – il tutto si consumava con una festa agreste. All’ingresso della Quaresima, Quaremma, evidente trasposizione del nome, veniva seppellita con patate rivestite da penne di gallina. Anche qui presenta l’analogia donna-campo, terra-utero. I balli di Sfossania, diffusi nel meridione, derivano proprio da fessa, che significa fessura, ma anche organo femminile. Tra i canti di carnevale, inerente a questo tema, vi è quello della dichiarazione d’amore che Cundumaggio fa a Fronna d’Alìa. Reminiscenze di quella libertà sessuale neolitica e delle orge dei popoli antichi sono rimasti nei proverbi e gli indovinelli, sempre a sfondo sessuale, detti cose cuselle. La coppia di Calendimaggio, molto praticata in Lucania e non sto qui a citare i vari studi, celebrata anche qui a Castelsaraceno, ove i due alberi vengono sposati, l’albero maschio viene da un luogo lontano dal paese, ed in questo caso da Carbone, a ricordo dello straniero eletto re e poi sacrificato. Tra le testimonianze scritte più antiche di questo rito della ‘Ndenna, cito quella di Ermenegildo Cascini:

Nel 1636 fu elevato a Patrono di Castelsaraceno S. Antonio di Padova su proposta del P. Carlo Placuzio dell’ordine di S. Girolamo della Congregazione del B. Pietro da Pisa […]. I P.P. Cappuccini diedero la statua, come si rileva dal pubblico strumento per notaro Iacovino […]. I festeggiamenti in onore del S. Patrono si celebrano ogni anno il 17 Giugno con grande intervento anche di forestieri, attratti soprattutto dallo espletamento di una tradizione la quale annualmente si ripete e si rinnova con vero e sentito entusiasmo. Si descrivono, ora, le fasi di quel culto perché, esso, è veramente originale e tale resterà ancora chi sa fino a quando: si tratta dell’albero della cuccagna. Quindici giorni prima della festa, con un bando pubblico si avverte che il giorno X si va a prendere l’albero della cuccagna. Il mattino di quel giorno, tutti i proprietari di buoi si danno convegno nel bosco Favino. Gli animali bovini non sono mai meno di cento. A questi bovari si unisce gran massa di giovani contadini con un palo ciascuno in mano. Dopo la scelta dell’albero e dopo l’abbattimento di esso, tra i bovari si tira a sorte la fortuna e l’onore di cacciare, con i buoi, il fusto bello e pulito, dal bosco. Altra sorte si tira tra i bovari per chi deve entrare l’albero nella piazza di S. Antonio. Dopo una settimana dal prelevamento … si bandisce ancora il giorno nel quale si va nel bosco comunale di Carbone detto Budda, a prelevare la chioma di un abete (detta conocchia) da legare all’albero. A questo il giorno della festa, infatti, ne legano la predetta conocchia carica di agnelli, polli, prosciutti e quindi con grandi sforzi, il grosso e lungo fusto … viene eretto. Si dispongono intorno i tiratori con decine di fucili ed a turno essi aprono il fuoco sui poveri animali. Lo strazio è evidente: sebbene la legge sulla protezione animali lo proibisce, tuttavia la tradizione è tradizione e nemmeno i Carabinieri o le altre autorità possono intervenire: sarebbero guai! Dopo una mezz’ora di fuoco si da il via agli scalatori: è una scena magnifica: come grappoli gli audaci, vestiti con cenci ed impiastricciati di miele e terriccio, salgono; i più forti raggiungono l’alta cima, i meno, a distanza spesso di solo qualche metro dall’agognata vetta, scendono precipitosamente, perché le forze sono venute meno. È una tradizione che si ripete di anno in anno e chi volesse prevederne la fine, azzarderebbe una scommessa non facile a vincersi.

Altre due tradizioni sono ancora vive: ogni anno si svolge un pellegrinaggio alla Vergine del Monte di Novi Velia; prima si andava al santuario a piedi impiegando sei giorni … si sale a piedi scalzi, dopo averli immersi in un’acqua che sgorga alle falde del monte […].

L’altra tradizione è quella della formalità del culto dei morti; questo è praticato con un’offerta di grano di orzo alla chiesa ed al prete, il mattino del 2 Novembre, depositando, sul pavimento della chiesa parrocchiale, in un mucchio che man mano va impinguandosi, il piatto di grano.

Tutto questo è Castelsaraceno, dove la fede in Dio e nei valori degli uomini; dove la carità verso i simili, alla luce della legge divina ed umana; dove la speranza nelle vicissitudini di una storia sempre migliore, sono le virtù che alimentano l’anima e lo spirito del castellano»51

Il ritualismo della ‘ndenna, rappresenta un rito arboreo. La magia agricola della raccolta è abbinata a quella arborea. Il culto degli alberi era presentissimo nella Lucanìa, l’antica terra dei boschi, come tuttora è presente nella sua forma cosciente, e non storica, in molte parti del mondo, come in India, ove tale venerazione è legata alla Dea Terra. Ma il nesso con l’albero si riscontra inevitabilmente in tutte le forme religiose, iconiche e non: a Creta era legato al culto della Pòtnia. «Tutta le terra è soggetta alla Grande Madre, Signora della Montagna e Signora dei Serpenti, presiede alle cime, alle caverne e al mondo sotterraneo, è madre e nutrice degli uomini e degli animali: il suo regno si estende dal cielo alla terra, dovunque c’è vita»52; in Cina e nei paesi semitici, come l’Arabia, si appendevano vestiti ed ornamenti (a mo’ di frutti) agli alberi sacri; ma si pensi ai cedri del Libano, sacri a Jahveh, come pure alla configurazione dell’albero della Croce; alberi e boschi sacri sono attestati presso tutti i popoli dell’Europa antica, latini compresi. «Il santuario celtico per eccellenza sembra essere stato il nemeton che designa la radura sacra, celeste, al centro della foresta […] è là…che vengono praticati degli orribili sacrifici, e che si trovano delle statue grossolane che rappresentano gli dèi (simulacra maesta deorum). Un sacerdote officia in questo santuario appartato e segreto[…] E poi, soprattutto, il popolo non giungeva mai in prossimità del luogo di culto e lo abbandonava agli dei…I Druidi abitano nei boschi profondi…Adorano gli dei nei boschi senza fare uso di templi.»53; Attis è collegato al pino nel mito, nel rituale e nei monumenti; Osiride, ad esempio è legato al Djed, l’Albero Sacro, associato ai riti giubilari egizi e collegato alla resurrectio del Dio, al pilastro sacro (culto caro anche ai Cretesi) osiriaco che sintetizza gli aspetti dell’albero sfrondato e scorticato, della colonna vertebrale e della «stabilità». Nell’Antico Egitto veniva celebrato di notte un interessantissimo rito, almeno ai fini della presente ricerca, quello appunto della “erezione del Djed”, come è testimoniato tra l’altro dal Libro dei morti: «[…] O Thot che rendi giustificato Osiride contro i suoi avversari, rendi giustificato l’Osiride tuo servo contro i suoi avversari, così come hai reso giustificato Osiride contro i suoi avversari, alla presenza dei Divini Grandi Giudici che sono in Djedu in quella notte della erezione del Djed in Djedu […]»54. Tutto ciò a ribadire che al di là delle varie mistificazioni, civettuole o meno, che sono state fatte, come la sua derivazione dai giacobini alberi della libertà, o dai conventuali alberi della cuccagna trasportati da Napoli, questo rito, come gli altri, benché abbiano perso i connotati originari nel tempo, fanno parte d quella antichissima religione agraria, appartenente alla civiltà contadina. E ciò è ancora più avvalorato dalla centralità che assume rispetto al contesto delle culture europee. La traditio, come trasmissione, consegna, oltre che mera presentificazione antropomorfa, rappresenta invero una riproduzione drammatica rituale reale, che si ricollega inevitabilmente alla sua origine mitica. La sacralità originaria del fatto orbene, divenuta forse folklore, letteratura ( si ricordi a proposito la tragedia greca), o machiavelleria paganeggiante innestata al cristianesimo, va riconsiderata seriamente, e questo è il vero compito che si dovrebbe prefiggere ogni studioso che si accinga a riconsiderare questa fenomenologia. È vero sì che ogni edizione annuale della ‘ndenna è diversa dalle altre, è unica ed irripetibile, ma se ci si sofferma sul come, può valere anche la tesi della suppositio, se, invece, ci si chiede il perché (quia) delle cose, allora tutto cambia. Il presente è incompiuto senza i suoi riferimenti temporali necessari: riscoprire la quidditas, la sostanza della ripetizione, che costituisce il ritus, non è senz’altro facile opzione e non esula certamente dalle difficoltà di traduzione ed interpretazione. Ogni versione è più imperfetta dell’originale e procede via via sempre più sbiaditamente anche a varie sostituzioni (ad esempio le vittime sacrificali appese all’albero con tacchetti). Il training psico-collettivo di un certo ritualismo, filtrato anche dal cristianesimo, con conseguente oblianza dell’origine, non giustifica affatto l’interpretazione che se ne può dare. È come la notazione di una sinfonia, la quale è sempre la stessa, ma diversa ne è l’esecuzione ed esemplare quanto più si avvicina al suo schema teorico.

APPENDICE

Anche i riti cattolici, come esaminato in precedenza, sono sentiti dai contadini in senso magico. Anzi «il cristianesimo fu, dunque, il risultato della vittoria della religione misterica sulla religione olimpica. Ma non fu una vittoria completa. Tutt’altro. Gli dei greci scomparvero, ma rimase lo spirito greco. Il realismo greco trionfò del cristianesimo […]. Bastava che lo scita sapesse che qual pugno di sabbia simboleggiasse il deserto, perché egli assistesse con la fantasia, prima ancora di vederla sulla scena, alla orrenda agonia dei martiri morenti…; bastava un bacino d’acqua simboleggiante il Tigri, perché egli vedesse la morte di Hussein, che colpito da una freccia alla bocca nell’atto che si china sul fiume a bere, alza al cielo le mani sanguinose; bastava che l’orfico vedesse lo specchio, perché egli evocasse tutta la tragedia di Zagreo, ucciso e risorto per recare alla umanità il beneficio della sua religione. Così al mistico basta una croce, perché egli riviva tutta intera la passione di Cristo, al punto di averne le stimmate dalle mani ai piedi»55, così per i contadini non si svolgeva la ieiuna atque arida traditio, come direbbe Quintiliano, ma in quella tradizione millenaria, si rievocava e si presentificava il dramma sacro, né più né meno come nella S. Messa si vivifica la tragedia del Cristo. Tra le tematiche più avvertite, ne ho rilevato alcune, che riporto alla fine del paragrafo, per ora vorrei riportare degli altri esempi significativi, che testimoniano questo amplissimo contesto, in cui va inserita tutta questa liturgia agricola locale. E mi riferisco alla religione baltoslava. Gurcho era il dio della mietitura, ed aveva sede in una quercia. «Alla festa della mietitura si ammazzava un capro, il cui sangue si versava a terra. Alla festa dei dio della fecondità Waizganthos, le vergini supplicavano il dio per il raccolto del lino e della canapa, e la più alta di loro, empitosi il seno di focaccine e salita su di una panca, vi si reggeva su di un piede solo, con in mano una tazza di birra, pregando che il lino crescesse alto come lei»56, molto simile agli atti propiziatori dei contadini nel lanciare in alto le monete per far innalzare la catasta dei covoni. E così questa languida e sfumata continuità tra mondo dei morti e mondo dei vivi. Proprio come nel Yakon, le anime dei morti vivono in modo del tutto identico ai vivi: vestono, vanno lungo una grande strada, ci sono accanto le anime degli animali e le capanne57. È un mondo parallelo e sconfinato, vita è morte e morte è vita in questo perenne eraclitismo degli elementi. Per gli antichi, l’Ade, o qualsiasi altra sua formulazione era localizzato in un dato posto. L’oltretomba è qualcosa di reale, tale e quale a quel “fosso dei morti” a Ruspagano. Tanto più che era visitabile, e non sono mancati eroi a proposito: Pitagora, Ulisse, Enea, Gilgamesch, Mitra, Marduk, Tammuz, a livello letterario Dante, ma siamo sempre là. Brevissimo glossario delle tematiche mitiche più avvertite:

  1. GROTTA. La grotta o le grotte, sono avvertiti come la sede per eccellenza degli eventi magici, in particolare gli antri del Raparo. Essa è sacra, perché è l’ ingresso nella Terra, nel Labirinto. Secondo alcuni miti locali, alcune caverne sono lunghissime e collegano centri diversi della terra. Ancor più interessanti poi le leggende legate alla Grotta del Prete o quella dei Preti58, dove esiste un tesoro custodito da una mitica figura ieratica con un libro sacro in mano.

  2. MALE. Il diavolo, idea apparentemente cattolica, ma legata al culto pagano della Terra-Madre, nella mitologia contadina è lo spirito del male, che minaccia i raccolti. Esso il più delle volte appare sotto le forme più svariate ai pastori, perché essi lo invocano, e sono considerati i più grandi bestemmiatori.

  3. TEMPESTA. Le rappresentazioni mitiche del male, si possono riassumere generalmente in poche idee. Tra di queste la tempesta è la minaccia primaria dei raccolti, ecco perché le antiche testimonianze contadine riferiscono dell’ esistenza di particolari maj’ari (maghari o maghi): gli m’bacciatori delle tempeste, i quali le allontanavano pronunciando i famosi Dodici (o tredici) punti di verità. Il rituale di questi tempestari era del tutto particolare: essi prendevano un coltello e facevano una croce in terra, in un cerchio che la racchiudeva, poi conficcavano la lama al centro di questa configurazione magica, e sempre in attinenza all’enigmatizzare delle fantastiche esposizioni popolari, la terra cacciava sangue (forse alludendo al fatto che assumeva colore rossiccio in seguito all’immelmamento provocato dalle incipienti precipitazioni acquose). In Località Acqua Russo, ad esempio, l’ aver negato il pane a dei maghi di tempesta costò ai contadini locali un diluvio che riempì di pietre tutta la vallata sottostante, tanto che – per la mitologia rurale – la terra rossa del posto caccia ancora sassi ogni volta che la si ara59.

  4. DIAVOLO. Il diavolo, personificazione del male, appare presso la mitologia agreste secondo le più svariate configurazioni: – a forma di serpente, il più delle volte; – a forma di capra, simbolo del male: le tre capre che alla Passerella, spaventano i cavalli dei pastori. L’ immagine di una gigantesca capra, evocata dai maghi, ad esempio, terrorizza un giovane incredulo; – in alcune leggende compare come il Peritunno (Pieditondo), che mangia con i pastori le pecore morte, come alla grotta Sch’casciata (scassata), dove viene colpito con lo spiedo, con tutta risposta di tuoni e di lampi; – alla grotta del Diavolo, un antro a forma di due narici, affacciante sullo Strittulo (strettoio), la stretta più angusta del Fosso dei Morti, si manifesta antropomorfo vestito da un manto ed un cappuccio rosso e convive col pastore; – a Colaconte assume le sembianze di un neonato che viene raccolto dal pastore e portato nel trastano (zaino) e molto pesante è buttato giù, onde conversando col suo trasportatore risponde di aver denti e peli nell’ano; – lupo come i lupi mainardi (mannari): una sorta di uomini-lupi, che si trasformano dopo aver mangiato la carne di pecora morta allupata (ovvero toccata dai lupi); etc.. Questo assemblaggio del diavolo-pastore, trova la sua spiegazione nella concezione del pastore maledetto, aggressivo e designa anche e forse nell’ iconscio collettivo il ricordo di quel conflitto ancestrale tra pastori ed agricoltori, tanto menzionato dal Capizzi60.

  5. SERPENTE. È l’animale legato alla terra, la divinità ctonia per eccellenza, esso esce dalle sue viscere miteriose e la custodisce: nella contrada Piano dei Campi esiste un serpente secolare con le corna, che è custode di un mitico passaggio sotterraneo; la sacralità del serpente è ancor più palese nella leggenda del Re Scorzone (riportata in appendice), un serpente nato da donna sterile (in analogia colla ierogamia del serpente che esce dall’ utero della terra) che poi va in sposo alla figlia del re; un’ altra particolare storia avente a che fare probabilmente sempre col rituale del sacrificio neolitico, è quella del serpente di Rampino, custode del tino dai cerchi d’oro, di cui dice il famoso detto: Quantu val nu circhiu i Rampinu/ nun ci val Casteddu Saracinu (Quanto vale un cerchio di Rampino/ non ci vale Castelsaraceno), appare solo in sonno durante la notte di Natale a dodici persone e indica il posto del tesoro. Si apre la terra ed entrati uno di essi doveva essere preso in sacrificio avvinto dalle spire del serpente che esce dal tino. Se dicevano mamma mia tutti venivano stravolti in altre parti del mondo; una variante della medesima è quella del serpente Travo (il Drago) dalle sette teste, che dal lago, ogni anno, pretendeva il sacrificio di una fanciulla del posto, finchè sorteggiata la figlia del re, viene salvata da un cavaliere, il quale dopo alterne vicende e tradito da un carbonaio, che si spaccia per il salvatore, portando le teste del drago rubate, va in sposo alla principessa, molto vicino al mito di Teseo e Andromeda o a quello di San Giorgio. Il serpente, divinità terrestre, è molto temuto dai pastori, per i quali è simbolo del male: esso va cacciato col bastone perché ciglia (incanta) le pecore per berne il latte, o le galline per prenderne le uova.

  6. MATRIARCATO. Qualche traccia del matriarcato è presente nel mito di Centino (il centesimo figlio) che poi va in sposo alla figlia del re.

IL VENTITRÉ ORE

Il Ventitrè ore è il canto della passione del Cristo. Viene diviso in ventitrè strofe, ciascuna, secondo la pietà popolare, corrispondente ad un’ora della passione del Signore, dal pomeriggio del Giovedì santo fino alla morte sulla croce, alle 15 del venerdì. È di una enfasi straordinaria, soprattutto se lo si ascolta, accompagnato dalla sua monodica e drammatica melodia. Tutt’ora viene cantato dagli anziani il Venerdì santo. Si possono notare, in questa versione, tra le più antiche, così come mi è stata trascritta dalla S.ra Angelina Barone, le grandiose e barocche effusioni che si perdono nelle reminiscenze latine dei termini, alcune delle quali sono state messe in evidenza nelle note. Questo testo musicato con accompagnamento vocale, veniva eseguito per intero dai mietitori durante i lavori di falciatura del grano, come abbiamo descritto in precedenza. È bene soffermarsi alla strofa XI, dove si accenna al mulino che macina oro. In questo passo è evidentissima l’allusione al re grano, ma anche al dio che viene ucciso fatto a pezzi e poi si reincarna sotto forma di pane. Il pane eucaristico è la forma iconica di questa morte e resurrezione del dio. Come nel mistero frigio, gli antichi panificatori, facevano un segno di croce sui pani. Era vietato assolutamente il trafiggerli con lame, ma solo tagliarli a fette, e non buttarli. Ma oltre a questa adorazione del pane, il tema della macina d’oro richiama il mitico mulino di Amleto dell’Edda poetica. Esso macina dapprima oro, ovvero l’età della prosperità, indi sale, infine viene inghiottito dall’oceano, in riferimento al crepuscolo degli dei. «Il misterioso mulino del mito, null’altro pare rappresentare se non il cielo che ruota incessantemente in perfetta armonia. De Santillana e la von Dechend ricordano le parole di Aristotele: «Ciò che è eterno è circolare e ciò che è circolare è eterno». Il moto circolare dei cieli – simboleggiato nel continuo ruotare di una macina – genera il tempo che riempie le misure di ogni ciclo fino al compimento, momento in cui un ciclo deve lasciare il posto al successivo. «La dimensione del firmamento è il Tempo».»61. Le tempia d’oro, macina d’oro, alludono allora al dio che viene macinato e poi mangiato, al mistero eucaristico, così come venivano macinati Dumuzi, Osiride, nel cruento rito estivo, o come nella festa di el-Būquat, “le donne piangenti”, ove «il lamento era principalmente per la crudele morte del dio, macinato tra due mole, […]. Di che tipo di macinatura si sarà trattato? Indubbiamente nella coscienza popolare il lamento rituale si riferiva alla morte di un dio del grano, chiamato anche Adone, (il Signore), ucciso da un feroce cinghiale, ma l’aspetto celeste predomina su quello agreste, ed è anche più antico, tanto più che il “feroce cinghiale” era Marte»5. In pratica come fa trasparire De Santillana, al di là della pietas popolare, tali mitologie si riferiscono a precise rivoluzioni astronomiche reali. Per gli antichi gli dei erano astri. Sul mito di Venere e di Marte potremmo citare il lavoro di Velikovskij, Mondi in collisione, che sta avendo di nuovo successo dopo l’eruzione del ’52, ma ci atteniamo per il momento all’interpretazione classica, in altro luogo potremmo tentare nuove strade. Come il mulino di Amleto che prima macina oro e poi sale, quando nel gorgo del mare si perde il fulcro delle mole, rappresenta la terra nella sua rotazione cosmica, così le tempia d’oro, macina d’oro, rappresentano l’età aurea, i Saturnia regna, quando l’asse terrestre era perfettamente allineato col sole, prima di ripiegarsi nei processi precessionali, allora che, sempre primavera, la terra produceva da sola i suoi frutti ed in attesa delle apocatastasi generali, al leone e l’agnello che pascoleranno insieme, alla morte che non più ci sarà. Gli antichi conoscevano bene le leggi universali cicliche delle rotazioni e delle rivoluzioni terrestri e il Cristianesimo assunse queste concezioni, inglobandole e facendole proprie nelle sue profezie apocalittiche e millenaristiche, nella eco delle età cosmiche di Gioacchino da Fiore. Anche qui, come spesso adducevo nel mio Boulanger, sussiste un sottilissimo filo conduttore che parte dalle Indie, o da quel comune fondo indo-europeo, ed attraverso la Persia, Zarathustra, Mani, giunge ai Greci, a Pitagora, a Platone, agli Stoici, e poi ai cristiani, attraverso Origene, sino ai Catari e a tante altre teofanie cosmo-religiose, per la via del sud, per la via del nord ai Celti, ai Germani, al crepuscolo deorum, ma questa è un’altra storia.

Il XXIII Ore della passione di N. S. Gesù Cristo

Versione italiana

E ca lu vintitrè ore

Gisù Cristu nosto Siniore62

Se licenzia da la sua Matre63

E piglia Morte pì nostr’ Amore

E figliu sando di lu gran Piando

Gloria Sanda Binidetta

Cu la sua dolende Matre

E la Sandissima Tirnitate64

A li unu

Si ristabulisce65 lu Santissimu Sagramendo

Ch’è ‘ngarnatu pì patì pene

Quannu foze l’utima cene

E sempe pi nui pena l’infferno

E ci lasciammu lu Sagramendo

Gloria Santa Biniretta…

A li rui

Fannu lu zirimone66 l’Apostuli

E l’Apostoli lu phiangono

Loru phiangono e loru fuggono

Loru resteno ra nimici

E loru furo67 li sirivienti

Gloria…

A li trene

Tu Patre meo68 Siniore

Prondo fusti a pirdunare

Cu nu signo e contra ammore

Prondo fusti a pirdunare

Gloria…

A li quatto

Si mèse l’agunia e sura sangu

Trema trema tuttu quandu

Quannu penza li soi martìri

Si ristingue ma ra murïne

Tuttu quandu a surà sangu

Gloria…

A li cincu

Fu quillo Giuda traritore

Cambiao a Cristu pi trenda rinari

Cu nu signu e contra ammore

Ra riscipulu traritore

Cambiao a Cristu pi trenda rinari

Gloria…

A li sei

Ra l’hortu e ra Anna fu cundotto

E cundotto scillirato

Multi ∫caffi li furo rati

Darannu a morti lu Verbu ‘ncarnatu

Gloria…

A li sett’

Cundottu ra Kaifàs

A la casa ri Kaifàs

Ni unimu multi pirsuni

Ni unimu e ni liggistramo69

E damu morte a Gesù nabramo70

Gloria…

A li ottu

Incarnitu e scarnitu

Ra pontifice e r’anticu

E r’antico e ra Pilatu

Co le suie parol devine

Intortamente furo accusati

Gloria…

A li nov’

Novi vote ra Petru fu nigato

Tre vote ma pi temore

Quilla morte sciaüratore

Tre vote ra Petru fu nigato

Gloria…

A li rece

Cu na strazza ri veste ianca

Trema trema tuttu quando

So quilli chi vannu sando

Tutte quilli ka nun vannu sando

Tutte abbascio allato a mi

Gloria…

A li unnece

Tempia71 d’ora macina d’oru

Addove si aunisce

Addove si incarnisce

Lu Verbu incarnatu

Gloria…

A li rurici

Foro quilli calabrici72

Sgrati e ammaligni

Ra pacci ka foro

Che redussero a Pilato

Inta quille favuze lenghe

Intortamente furo accusate

Gloria…

A li tririci

Nunziate iusti73

E canosci lu Beni Pilatu

Ka Gisù era nocende

A morte flagillatu

Pi salvane a tanda gende

Gloria…

A li quattordece

Cume bella sfracasciata

Loru foru l’abbattituri

A li soi tempi incurunata

Cu li spine pungende e duri

Gloria…

A li quinnece

Nunziate iusti…

A li serici

Fo ammustrato a li barcuni

A nà culonna

Eccie omo74 ma pi l’abbrei

E ra vasciu fo grirato

Murïu en croci caninè

Gloria…

A li riciassett’

Pigliatilu e purtatilu a croci

Ri monti Calivario

Kà la Virgine dà è morta

Quannu si vere Gisù lassato

Chi la cruci li spalli porta

Gloria…

A li riciottu

Mortu e crucifissu

E ka l’angiuli lu piangine

Li giurei lu vannu truvennu

Ca lu vonnu crucifizzà

Gloria…

A li riciannov’

Rici a quillu Aternu Patri

Ca pirdunesse a quilli calabriciti…

A li vinti

Cercao ra bere

E ra bere li fo rato

Li fo ratu acitu e fele

Li fo fatta bona misura

E rata a beri ra Pilato

Gloria…

A li vintunu

Mortu e firitu ra na lanza

Trema la terra e lu cielu s’ascura

Vaglia li cieli cu na granne pavura

Prestu li fulminati nà lanzata

Daran a morti lu Verbu ‘ngarnatu

Gloria…

A li vintirui

Ni unimu multi pirsuni

Gesù ra la croci amà schiuvani

Mbrazza a Maria Virgine lu punimu

Poi si lu chiange a lacrume amari

Gloria…

A li vintitene

Signori meo Gisù Cristu

Avaramente ti cumpiatiscu

E ra sopa a quilla cruce

Adduvi fecisti celu e sbramore75

Gloria…

Ecco il ventitrè ore

Gesù Cristo nostro Signore

Si licenzia dalla sua Madre

E prende Morte per nostro Amore

E Figlio santo del gran Pianto

Gloria Santa Benedetta

Con la sua dolente Madre

E la Santissima Trinità

I

Si ristabilisce il Santissimo Sacramento

Che si è incarnato per patir pene

Quando fu l’ultima cena

E sempre per noi pena l’inferno

E ci lasciammo il Sacramento

Gloria Santa Benedetta…

II

Fanno raduno gli Apostoli

E gli Apostoli lo piangono

Loro piangono e loro fuggono

Loro restano da nemici

E loro furono i servitori

Gloria…

III

Tu Padre mio Signore

Pronto fosti a perdonare

Con un segno e contro amore

Pronto fosti a perdonare

Gloria…

IV

Si ci mise l’agonia e suda sangue

Trema trema tutto quanto

Quando pensa ai suoi martiri

Si distingue ma da morire

Tutto quanto a sudar sangue

Gloria…

V

Fu quel Giuda traditore

Scambiò Cristo per trenta denari

Con un segno e contro amore

Da discepolo traditore

Scambiò Cristo per trenta denari

Gloria…

VI

Dall’orto e da Anna fu condotto

E condotto da scellerato

Molti schiaffi gli furon dati

Daranno a morte il Verbo incarnato

Gloria…

VII

Condotto da Caifa

Alla casa di Caifa

Ci uniamo molte persone

Ci uniamo e ci prepariamo

E diamo morte a Gesù di Abramo

Gloria…

VIII

Incarnato e schernito

Da pontefice e d’antico

E d’antico e da Pilato

Con le sue parole divine

Distortamente furono accusati

Gloria…

IX

Nove volte da Pietro fu negato

Tre volte ma per timore

Quella morte da sciagurato

Tre volte da Pietro fu negato

Gloria…

X

Con uno straccio di veste bianca

Trema trema tutto quanto

Son quelli che vanno santo

Tutti quelli che non vanno santo

Tutti giù a lato a me

Gloria…

XI

Tempio d’oro macina d’oro

Dove si unisce

Dove s’incarna

Il Verbo incarnato

Gloria…

XII

Furono quei calabresi

Ingrati e maligni

Da pazzi che furono

Che condussero a Pilato

Tra quelle false lingue

Distortamente furono accusati

Gloria…

XIII

Annunziate giusti

E conoscilo bene Pilato

Che Gesù era innocente

A morte flagellato

Per salvare tanta gente

Gloria…

XIV

Come è bella fracassata

Loro furono gli abbattitori

Alle sue tempia incoronata

Con le spine pungenti e dure

Gloria…

XV

Annunciate o giusti…

XVI

Fu mostrato ai balconi

A una colonna

Ecco l’uomo ma per gli ebrei

Da sotto fu gridato

Morì in croce da cane

Gloria…

XVII

Prendetelo e portatelo alla croce

Del monte Calvario

Che la vergine là è morta

Quando si vede Gesù lasciato

Che la croce sulle spalle porta

Gloria…

XVIII

Morto e crocifisso

E che gli angeli lo piangono

I giudei lo vanno trovando

Che lo vogliono crocifiggere

Gloria…

XIX

Dici a quello eterno Padre

Che perdonasse quei calabresi…

XX

Cercò da bere

E da bere gli fu dato

Gli fu dato aceto e fiele

Gli fu data una buona misura

E dato a bere da Pilato

Gloria…

XXI

Morto e ferito da una lancia

Trema la terra ed il ciel s’oscura

Vaglia i cieli con gran paura

Presto un fulmine da una lanciata

Daranno a morte il Verbo incarnato

Gloria…

XXII

Ci uniamo molte persone

Gesù dalla croce dobbiamo schiodare

In braccio a Maria Vergine lo poniamo

Poi se lo piange con lacrime amare

Gloria…

XXIII

Signore mio Gesù Cristo

Veramente ti compatisco

E da sopra quella croce

Dove facesti dal cielo bramore

Gloria…

La razione di Santa Barbara

La razione di Santa Barbara, già succitata, insieme a quella di Santa Lucrezia, di San Rocco e di Sant’Antonio, è una delle tante, cantilene, una sorta di componimenti narrativi in versi, di origine popolare, recitati o cantati ritualmente e non solo durante la mietitura ma anche nelle liturgie od in altre occasioni. Santa Barbara, come sappiamo, fu martirizzata a Nicomedia da Dioscoro, suo padre, il quale, essendo pagano, mal sopportò che la figlia avesse fatto voto di verginità e fosse cristiana. Dopo averla inutilmente tentata e sottoposta a crudeli tormenti, di propria mano le recise la testa, ma – secondo la leggenda – sul luogo stesso del supplizio fu ridotto in cenere da un fulmine. Da ciò deriva la devozione verso di lei contro i fulmini ed in generale contro tutto ciò che, essendo infiammabile ed esplodente, può produrre morte repentina e violenta. Oltre a San Rocco e Sant’Antonio, che sono i patroni del paese, pare che la devozione a Santa Lucrezia sia stata importata dalle marine del Metapontino, ove i mietitori si recavano durante l’estate a compiere il loro lavoro, mettendosi in sintonia, anche lì con la universale magia del grano. Ma Santa Lucrezia, martirizzata a Merida durante le persecuzioni di Diocleziano, sotto il prefetto Daciano, più conosciuta forse come la martire spagnola uccisa a Cordova nell’859 dai Saraceni, è abbinabile all’eroina romantica Lucrezia, moglie di Collatino, la quale, disonorata da Sesto Tarquinio, indegno figlio dell’ultimo re di Roma, l’etrusco Tarquinio il Superbo, preferì la morte al disonore, eccitando così la caduta dei Tarquini e la fine del governo monarchico.

Quannu Santa Barbara nascìu Quando Santa Barbara nacque

Puru la mamma lì murìhu, anche sua mamma le morì,

U patri nun havìa cumi fani il padre non aveva come fare

Inda nu voscu la ìu a purtani. in un bosco l’ andò a portare.

Quannu ci fu arr’vata a 14 anne Quando fu arrivata a 14 anni

Li ìu a nova u patri ch’ era fatta granne, andò la notizia al padre che era cresciuta,

U pati nun havìa cumi fani il padre non aveva come fare

Trenda carrozzi e la ìu a pigliani trenta carrozze e l’ andò a prendere.

Quannu ci foze’nnand a quedda porte Quando fu davanti a quella porta

Li rìu na spenda e na bussata forte le diede una spinta ed una bussata forte

Subbetu la figlia sua lu ìu a haprine subito sua figlia lo andò ad aprire

La parma m’manu e la curona n’ testa. la palma in mano e la corona in testa.

La parma m’manu e la curona n’ testa La palma in mano e la corona in testa

Subbetu lì baciau la manu restra, subito le baciò la mano destra,

  • O tata tata che nova m’hai purtata – o padre padre, che notizia m’hai portato da quel regno?

Ra quiddu regnu? – non t’ ho portato né notizia né novella, ma ho

  • Nun t’ aggiu purtatu nì nova nì novella saputo che tu sei zitella.

  • Aggiu saputu ca to si zhtella.

O tata tata nun mi scontradine O padre padre non mi contraddire

Nun mi livani la virginitane, non mi togliere la verginità,

Nun mi livane la virginitane non mi togliere la verginità

Lu figliu ri Maria m’aggia pigliane. il figlio di Maria mi devo prendere

Lu figliu ri Maria l’aia lassani Il figlio di Maria lo devi lasciare

Lu riccu impiratori t’haia pigliani il ricco imperatore ti devi prendere

– Nun mi livani la virginitane – non mi togliere la verginità

Lu figliu ri Maria m’aggia pigliane. il figlio di Maria mi devo prendere.

Possa carè nu furmino valente Possa cadere un fulmine valente

Vole ammazzà miu patre e li mal aggente voglia ammazzare mio padre e le male genti

Ni vò carèn natu ri valore ne voglia cadere un altro di valore

Vole ammazzà lu riccu impiratore voglia uccidere il ricco imperatore

Sta razione chi ha sape e chi la ‘ndende Questa razione chi la sa e chi la intende

Guaragna l’inucenzia. Amenne. guadagna l’innocenza. Amen.

Chi nu la sape mò si la ‘mbaresse Chi non la sa se l’imparasse

Nu Pater Av’a Sanda Barbara li ricesse. Un Pater Ave a Santa Barbara le dicesse.

I tredici punti di verità

Il terzo riporta il testo integrale della formula usata dai tempestari nel rituale per scacciare le tempeste così come mi è stato riferito da Egidio Latronico, detto di Manticedda, il nome deriva proprio da mantica, l’arte della divinazione. Trattasi di una sorta di rito esorcistico che fa uso di espressioni, monotone e ripetitive, appartenenti alla tradizione cristiana. È da notare la spettacolare caratteristica dell’uso dei numeri e della cadenza invocatoria ai quattro evangelisti, che nel significato esoterico rappresentano i quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco.

Vurrebbe parlà ri multe manere, tavula ri seta sulu Diu u munnu mantene.

Vorrei parlare in molte maniere, tavola di seta solo Dio il mondo mantiene.

A li rui sulu la lume, tavula ri seta sulu Diu u munnu mantene.

Ai due solo la luce, tavola di seta …

A li tre patriarche, Luca Giuannu San Marcu Matteu cantavinu li uangeli ‘nnand’ a Cristu.

Ai tre patriarchi, Luca, Giovanni, San Marco e Matteo, cantavano i vangeli innanzi a Cristo.

A li quattu vangilisti, Santu Luca Giuannu San Marcu e Matteu cantavinu li uangeli ‘nnand’ a Cristu.

Ai quattro evangelisti, San Luca…

A li cinqu chiake ri Cristu, Luca Giuannu San Marcu e Matteu cantavinu li uangeli ‘nnand’ a Cristu.

Alle cinque piaghe di Cristo, Luca…

A li sei galinee, Luca Giuannu San Marcu e Matteu cantavinu li uangeli ‘nnand’ a Cristu.

Ai sei galilei, Luca…

A li setti ruluri ra Madonna, viatu chi ‘n core li tene.

Ai sette dolori della Madonna, beato chi in cuore li tiene.

A li ottu sottu a l’arca hi Nuène, San Luca Giuannu San Marc’e Matteu cantavinu li uangeli ‘nnand’ a Cristu.

Agli otto sotto l’arca di Noè, San Luca, Giovanni, San Marco e Matteo, cantavano i vangeli innanzi a Cristo.

A li novi cori r’angiulu, Luca Giuannu San Marcu e Matteu, cantavinu li vangeli ‘nnand’ a Cristu.

Ai nove cori degli angeli, Luca…

A li reci cummannamenti ra luci hi Diu, Luca Giuannu San Marcu e Matteu cantavinu li vangeli ‘nnand’ a Cristu.

Ai dieci comandamenti della luce di Dio, Luca…

A li unnici virginelle, Luca Giuannu San Marcu e Matteu, cantavinu li uangeli ‘nnand a Cristu.

Alle undici verginelle, Luca…

A li rurici apostuli, Luca Giuannu San Marcu e Matteu, cantavinu li uangeli ‘nnand a Cristu.

Ai dodici apostoli, Luca…

A li tririci nun c’è pattu, Luca Giuannu San Marcu e Matteu, cantavinu li uangeli ‘nnand’ a Cristu.

Ai tredici non c’è patto, Luca…

A li tririci nun c’è pattu, l’angiulu crescj e u riuavulu ∫catta.

Ai tredici non c’è patto, l’angelo cresce e il diavolo schiatta.

La leggenda del re Scorzone

L’ultimo è uno dei tanti racconti mitologici del posto, dettagliato dal pastore Carmine Candia. Vi sono presenti i temi della ierogamia del re serpente, della terra madre e del sodalizio tra il re grano e la figlia del re. Anche qui si può evidenziare la ricorsività del testo e la ripetizione, adatte altresì alla narrazione, così come un tempo era in uso nei nostri vicinati di raccontare le storie ai bambini per acquietarli. Il tema del serpente e della venerazione verso di esso è antichissimo. Rimarco, ad esempio, solo delle analogie col mito di Telepinu. Il serpente Illuyankas, connesso alla festa di primavera di Purulliiyas, lotta con il dio della tempesta e gli ruba un occhio e il cuore. Indi quell’altro si sposa con una mortale ed il figlio lo dà alla figlia del serpente per recuperare i suoi organi76.

C’era una donna povera e senza figli, la quale aveva fatto voto ai santi e riuscì incinta. Dopo tanto partorì un serpente che parlava e lo chiamò Scorzone. Il serpente crebbe ed arrivò il giorno che desiderava fidanzarsi. E cominciò ad assillare la sua genitrice. Ma lei gli diceva:

– Tu sei un serpente, e non ti vuole nessuno!.

Ma quello tanto insisteva da mandarla dalla figlia del re. La madre andò e chiese al re per suo figlio la mano della principessa Giovanna. Il re acconsentì e i due si fidanzarono e poi si sposarono. Ora la prima notte di nozze il serpente disse alla ragazza:

– Togliti una veste ed una me la tolgo io.

E lo ripeté per tre volte. D’un tratto a quelle parole si trasformò in un bellissimo giovane ed alla ragazza sbigottita ammonì che per tre sere non doveva essere scoperto da nessuno. Ma la principessa pressata dai genitori rivelò tutto e la terza sera lasciò una filatura della porta affinché lo scorgessero. Le madri entrarono e lo andarono ad abbracciare, allora il bel principe sparì di colpo, appena in tempo per dire alla sua amata:

– Mi troverai solo quando avrai consumato tre paia di scarpe di ferro!

Si ricordò; andò dal ferraio e si fece preparare le scarpe, poi si mise in cammino e all’ imbrunire giunse in un bosco. Decise di fermarsi ed intravide da lontano una luce, la seguì e si avvicinò. Là c’era un mago di cento anni.

– Chi vai cercando?

– Il re Scorzone.

Rispose lei e replicò il mago:

– Aspetta i miei colombi, che sono andati a pascolare. Forse sanno qualcosa!

Arrivarono i colombi, ma non ne sapevano niente. Allora di buon mattino Giovanna si rimise in cammino, ma prima di partire regalò al mago un paio di quelle scarpe di ferro che aveva fatto fabbricare. E quasi di rimando il mago le diede una castagna osservandole che al momento giusto poteva servirle. Infine la indirizzò da un altro mago. Erano tre fratelli.

Giunta dal mago di duecento anni la ragazza gli chiese del re Scorzone, onde:

– Aspetta i miei corvi. Forse ne hanno sentito notizia, però nasconditi e non farti vedere da loro, altrimenti si spaventeranno e non diranno più niente!

I corvi infatti ne sentirono l’odore, ma del re scomparso non sapevano proprio niente. Giovanna allora ripartì regalando al mago un altro paio delle sue scarpe, e il mago a lei una nocciola.

Arrivò dal terzo mago di trecento anni ed attese impaziente le sue aquile, le quali lo stesso non lo conoscevano. Ma prima di andarsene, ribatté il mago:

– Non andare via! Ancora deve rientrare l’aquila zoppa. Forse lei sa qualcosa!

Arrivò quest’ultima e finalmente le riferì che il re Scorzone si era sposato con un’altra figlia di re, infatti l’aveva visto mentre rubava il “campanaro”77 appeso ad una finestra del castello. All’alba subito Giovannina ripartì seguendo l’aquila mentre donava al mago il suo terzo paio di scarpe in cambio di una noce.

Arrivata sotto l’ingresso della reggia si mise a gridare.

– Chi vuole una serva?

Subito si affacciò una delle madamigelle del re, chiedendole se voleva pascolare le oche.

– Quanto vuoi?

Domandò.

– Niente! Basta che mi assicurate il vitto e l’alloggio.

– Va bene, signorina!

E si mise a guardare le papere. Un giorno ruppe la castagna del mago e comparve un abito

bellissimo: lo indossò. La madamigella a prima vista se ne innamorò.

– Ti piace, vero! Lo vuoi?

– Si.

– Se mi fai stare una notte con il padrone te lo regalerò.

La damigella acconsentì, ma furbamente diede un sonnifero a Scorzone. Così quella notte Giovannina non fece niente. Il giorno dopo capitò la stessa storia con l’abito che magicamente era uscito dalla nocciola. Però la notte seguente se ne accorse. Allora propose a quella damigella infingarda di non somministrare la pozione magica in cambio di cento ducati e quella subito accettò la congrua offerta. E così la terza notte, rotta la noce ed indossato l’abito più bello dei tre, la principessa si recò nella stanza di Scorzone. Il re sveglio, la riconobbe subito: si incontrarono, fuggirono insieme e vissero felici e contenti.

1 Lo studio della magia del grano è ispirato all’antropologia filosofica di Antonio Capizzi di cui rimando a L’uomo a due anime. Dall’infanzia mimica, dalla comicità adolescenziale, al tragico come scelta adulta, La Nuova Italia Editrice, Scandicci (Firenze) 1988.

2 E. Garin, La filosofia come sapere storico, Laterza, Bari 1990, p. 4. Tra gli studi locali di maggior interesse antropologico cito T. Armenti – I. Iannella, Nella magia della fede. La festa del Santo Patrono a Castelsaraceno, Edisud, Salerno 1996, sul rito della N’denna.

3 Gregna nel dialetto locale significa covone (lat. grego, o gramen, gram(i)na).

4 Altre testimonianze asseriscono che la festa si svolgesse nella Piazza Piano della Corte, ma forse questa è la più attendibile, per i motivi che saranno in seguito esplicitati.

Il rito della N’denna ( o Antenna), ovvero dell’ Albero, molto diffuso in Lucania, consta di tre parti fondamentali:

  1. La prima Domenica di Giugno viene tagliato un albero di faggio, alto più di venti metri, indi scortecciato insieme ad altri tronchi e trasportato da buoi dal bosco Favino – Monte Alpi sino in paese, dove il tutto si conclude con una festa.

  2. La seconda Domenica di Giugno avviene il taglio della Cunocchia (o Conocchia), un albero di Pino, nel bosco Armizzone ed è trasportato a spalla fino in paese: all’ entrata del quale si mettono sopra due zampognari, i quali suonando sono portati insieme all’ albero in processione sino a Piazza Sant’Antonio. Anticamente il Pino o Abete veniva portato dal vicino paese di Carbone, a segno del sacrificio dello straniero: infatti i boschi di abete erano diffusi nel nostro territorio, prima che alluvioni ed altre intemperie naturali od umane li avessero distrutti.

  3. La terza Domenica di Giugno (e più precisamente il 19 Giugno, data in cui è stato sempre celebrato il rito, oggi il 13 giugno) si ha la vera e propria festa di Sant’Antonio: nel pomeriggio la Conocchia viene innestata alla N’denna con ganci di ferro, e innalzato l’Albero nel centro della Piazza, i cacciatori sparano i premi appesi alla Conocchia, indi salgono gli scalatori. Prima addirittura appendevano al Pino animali vivi ed il tutto si concludeva con un cruento rito di sangue.

5 Circa un tomolo di grano. Si ricorda, a tal proposito, che la Cappella di Sant’Antonio, fu trasferita presso la piazza omonima, soltanto dopo la soppressione del Convento dei Cappuccini, del quale conserva ancora l’ Altare, e che, pertanto, – si arguisce – prima lo spiazzale antistante, non ancora sacralizzato, era le sede delle feste contadine.

6 F. M. Cirelli, Il Regno di Napoli e delle Due Sicilie descritto e illustrato, Napoli 1853, vol. III, pp. 38 e sgg., in particolare alla voce Usi e patrie costumanze, p. 46.

7 A. Capizzi, op. cit., pp. 142 sgg..

8 J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Newton, Roma 1999, pp. 370 sgg..

9 Aa. Vv., Le religioni dei misteri, a cura di Paolo Scarpi, Mondatori, Milano 20044, vol. II, p. 285.

10 J. G. FRAZER, p. 488. Sulla descrizione dei riti della mietitura, cfr. pp. 481 e sgg.

11 Id., p. 389.

12 Coloro che dirigevano il lavoro del raccolto, i capo-mietitori.

13 Cioè prima di iniziare il raccolto si facevano tre volte il segno di croce. E M’bront’/ si facianu tre cruci sant’ ripete un antico canto contadino: “In fronte/ si facevano tre croci sante”.

14 Il campo di grano (pl. lavori).

15 Le ande erano le fila in cui il campo veniva squadrato (lat. antes).

16 Le ierm’te () erano i covoni più piccoli fatti dai mietitori, che venivano raccolti e legati in covoni più grandi (le gregne).

17 La meta era la catasta dei covoni, a forma di campana per favorirne il displuvio delle acque in attesa della trebbiatura.

18 La pisatura, o pestatura (o trebbiatura del grano) avveniva poi in grosse arie (aie) di pietra, esposte a vento, ove posti i covoni, vi venivano fatti passare sopra dei massi di pietra tirati da asini o buoi; poi al vento con delle forche veniva innalzato il tutto e separata la paglia e la pula dal foraggio.

19 «Chi lo vuol, mietere questo campo, quest’anno,/ adesso mi faccio raccoglitore dei covoni.” “Chi se lo vuol mietere che se lo mietesse,/ da parte mia io ci butto fuoco!». Gli accampatori delle gregne erano i garzoni che raccoglievano i covoni e li accatastavano sulla meta a forma di cono.

20 Il verso è tratto da T. ARMENTI, Mio padre racconta il Novecento, Guarini, Montoro Inf. 2006, p. 41. «E lo stupido di san Nicola inventa canzoni alle giovani oneste./ E non pensa alla sorella che è fatta vecchia e nessuno la vuole». L’allusione alla vecchia è all’ultimo covone.

21 Dio. Bib. I,14,2.

22 Er. St. II,79.

23 Su Litierse vedi FRAZER, p. 480 e sgg.

24 Sulle Cerealie, L. BIONDETTI, Dizionario di mitologia classica, Baldini e Castoldi, Milano 19992, p.754.

25 Sul misterioso popolo di Řş-şưǎş cfr. P. BOREA, Storia di Roccanova, s.l. s. a., pp. 14 e sgg..

26 CAPIZZI, p. 119.

27 La “fila di coda” era quella lasciata per apparigliare la squadratura dei campi, che di solito, dopo l’ uso dell’ aratro a versoio, avevano forma tondeggiante. Cfr. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1989, pp. 76 e sgg..

28 FRAZER, p. 455. La Vergine e la madre del grano nel Nord Europa.

29 CAPIZZI, p. 49.

30 Kalevala, Poema Nazionale Finnico, traduzione metrica di P. E. Pavolini, a cura di G. Pascoli, Sandron, Milano 1910, II, 296-330, p. 13.

31 Riguardo al termine “gualano”: «Gwalàn, wlana, m. (muh, nsd), “aequalanus”; cfr. waàn, walàn, walèn, il bifolco, bovaro e garzone di campagna, » da Rainer Bigalke, Dizionario dialettale della Basilicata, Carl Winter – UniversitŇtsverlag, Heidelberg 1980, p. 321. Ionda (lat. iuncta) sta per una manciata. Maisi sarebbe il maggese. Il nome delinea in senso generale la pratica dell’aratura.

32 E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino 1975. L’aspetto esteriore più evidente del lutto era il vestito nero femminile, ancora in uso a Castelsaraceno, ed il non radersi maschile.

33 Ruspagano era evidentemente la Rus Pagana, la campagna dei pagani.

34 Serv. Ad Aen. VII,799.

35 Su Elea, cfr. oltre alla Geografia di Strabone, VI,387; Herod., I,§164-7; I Presocratici, a cura di A. Capizzi, La Nuova Italia, Firenze 1972; G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Loescher, Roma 1889, vol. I, pp. 122 e sgg.; Breve storia popolare di Novi Velia, a cura di Vincenzo Cerino, Pro Loco, Novi Velia 2001; P. APOLITO, Viaggio d’autunno. Ritualità arcaiche e modelli ecclesistici nelle tradizioni popolari del Vallo di Diano, Laveglia Editore, Salerno 1981; id Itinerario folkloristico, in Guida alla Storia di Salerno e della sua Provincia, a cura di A. Leone e G. Vitolo, Salerno 1982;. R. DE SIMONE, Chi è devoto. Le feste popolari in Campania, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1974; V. Esposito, Dal Cilento verso Capri. Feste mediterranee della provincia di Salerno, Imagaenaria, Ischia 2005.

36 C.-F. JEAN, La Religion Sumérienne, Librairie Orientaliste Paul Geuthner, Paris 1931, p. 147.

37 N. Söderblom, La vie future d’après le Mazdeisme et la lumière des croyances parallèles dans les autres religions, Annales du Musèe, paru en 1901, pp. 75 sgg. passim.

38 C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Mondatori, Milano 1968, p. 103. E. De Martino, Mondo popolare e magia in Lucania, Editrice Basilicata, Roma-Matera 1979, p. 143.

39 “Andiamo al Monte/e chi ci vuol venire/gente a forza/non ne vo cercando. Non ci credete/che moriate di sete/in ogni capo di via/c’è una fontana. Ai piedi di questa salita/c’è una fontanella/più ti ci lavi/più ci sembri bello. Andiamo… per andar a trovar Maria/sopra il monte di Novi. Sopra a questo monte/ci sta una gran Regina/chi ci vuol venire/tutti accoglierà”.

40 “E sette son le stelle/e sette son le sorelle/è bella questa Madonna/per quante grazie fa”.

41 “Quanto è bello questo monte/con queste stelle intorno/è bella questa madonna/per quante grazie fa. Quanto sei bella/o madre mia/dolce Maria/stella del mare. Maria del monte/le grazie son belle/un giro di stelle/di tanta corona. Andiamo al monte/a pregare la regina/le voglio star vicina/che gioia che sarà. E quand’è l’ora/che io arrivo a casa/io non ci entro/senza di te”. Si noti la frequente allusione alle stelle della corona, ma anche a quelle “intorno al monte”, ed all’invocazione mariana Stella maris. Traso da transire.

42 Yue Dai Yun, A. Sauvagnargues, La natura, Servitium, Troina 2000, pp. 6-7.

43 Cfr. L. & T. Engl, Gli Incas. Splendore e declino. Aldo Martello, Milano 1970, pp.146 e sgg..

44 Cfr. L’ascesa al Sacro Monte, da parte degli eroi Me Ru, Kudistira, Argiuna ed altri, in M. Chièreghin, Eroi e dei dell’Himalaya, Società Editrice Internazionale, Torino 19652, pp. 141 e sgg..

45 Pietra del duca.

46 Cfr. G. Pettinato, I Sumeri, Rusconi, Milano 1994, pp. 169 sgg.; L’epopea di Gilgameš, Fabbri, Bergamo 1999, II 136 sgg., pp. 95 sgg. passim; C.F. Jean, op. cit., riferisce che nella Stèle des Vautours, frammento C, a Lagaš, dopo una vittoria, i morti furono sistemati simmetricamente in forma di piramide, con evidente allusione al Kur, cfr. p. 146.

47 E. Schurè, Santuari d’oriente, Laterza, Bari 1927, p. 57.

48 Cfr. G. Hancock, Impronte degli Dei, pp. 559 e sgg..

2 G. DE SANTILLANA, H. VON DECHEND, Il mulino di Amleto, Adelphi, Azzate 20063, p. 22.

3 Ivi, p. 170.

4 Per questo discorso cfr. Numénius, Fragments, Société d’édition Les Belles Lettres, Paris 1973, pp. 80 e ss..

49 Ap., Met., XI,5

50 In riferimento alle farse di fescennina memoria.

51 Tratto dalla Monografia di Castelsaraceno di Ermenegildo Cascini, ms, Castelsaraceno aprile 1957, foll. 35-37. Cfr. T. Armenti – I. Iannella, Nella magia della fede, Edisud, Braciliano 1996, pp. 37-54, ove è contenuto anche il canto popolare in onore di S. Antonio.

52 C. Milani, I palazzi di Creta, De Agostini, Novara 1981, pp. 14-16.

53 J. Markale, Il Druidismo. Religione e divinità dei Celti, Mediterranee, Roma 1991, pp. 148-149.

54 Il Libro dei morti degli antichi Egizi, a cura di B. De .Rachewiltz, Mediterraneee, Roma 20013, formula CVIII, p. 47. Il Djed è il pilastro sacro ad Osiride che sintetizza gli aspetti dell’Albero sacro sfrondato e della colonna vertebrale. Fu associato ai riti giubilari. Nella tomba di Kheruief a Tebe vi è rappresentata una scena in cui il sovrano appare in atto di rizzare il simulacro con corde. L’erezione del Djed aveva luogo di notte, come testimoniano , tra l’altro, le formule I e XIX dello stesso Libro dei morti. L’albero, sfrondato e scorticato, come la ‘ndenna.

55 V. Macchiaro, Zagreus, Vallecchi, Firenze 1929, pp. 179 sgg..

56 C. D’Alessio, Dei e miti, Labor, Milano 1954, p 60 e sgg.. Sulla antichissima religione alimentare cfr. anche V. L. Grottanelli, Ethnologica, Labor, Milano 1934, vol. II, pp. 571 sgg..

57 Cfr. M. Mörner, Tirana, Jena 1905, p. 6. La fiesta de la Tirana ricordava il sacrificio della dea madre india violentata a poi uccisa dal marito per il bene del popolo, associata poi al culto mariano della Tirana, la Candelaia, la Virgen del Carmen.

58 Quest’ ultima risiede su di un precipizio ed è inaccessibile; fu sede di un’ antica casta sacerdotale o più tardi di eremi legati alla Badia Basiliana di Sant’ Angelo al Raparo.

59 Sui tempestari cfr. J. – C. Schmitt, Medioevo “superstizioso”, Laterza, Bari 1997, pp. 61-65.

60 A. Capizzi, op. cit., pp. 83 e sgg..

61 Snorri Sturlurson, Edda, dall’introduzione di Gianna Chiesa Isnardi, Tea, Milano 2003, p. 27. Sul famoso mito importante è l’opera di G. De Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e le strutture del tempo, Adelphi, Milano 2003.

5 DE SANTILLANA, op. cit., p. 333 sgg..

62 Lat. Senior.

63 Dal tema nominale matr-is.

64 Tirnitate oppure Ternitate, dal num. distrib. ternus, Trinità.

65 Lat. restabulo, as.

66 Dal tema nominale sermo-nis, più che un discorso, il termine, a parere, indica il radunarsi ed il conversare degli apostoli impauriti, prima di fuggire.

67 Si noti il tema verbale fu- come riappare anche in seguito, fusti, furo, foze (da fuisset), etc..

68 Possessivo, lat. meus.

69 Comp. di legis e sterno, is, prepararsi a norma, allestire.

70 ‘nabramo, forma sincopata di in Abramo, indica appartenenza e/o derivazione.

71 Tempia, può significare sia “il tempio” che “le tempia”. Ancora più forte quest’immagine del dio la cui testa viene macinata per il mondo.

72 La visione dei calabresi come gente dalla dura cervice, assimilabile pertanto agli ebrei è diffusa nella mentalità locale.

73 Latinismo: “annunciate o giusti”.

74 Forma volgarizzata, per “ecce homo”.

75 Si possono notare altre parole, come virgine, da virgo, aterno, da aeternus, etc. che rispecchiano i riferimenti fonetici e morfologici del dialetto castellano, sui quali si può consultare, anche se in fieri, il Dizionario, fino alla lettera F, curato proprio dalla Prof.ssa Teresa Armenti. Le stesse considerazioni si applicano per le prossime testimonianze, riportate in testo, come la razione di S. Barbara, etc.

76 D’Alessio, o.c., p. 60.

77 Il campanaro è costituito dal fegato e polmoni degli animali uccisi.