La sala dell’intreccio e della tessitura
INIZIALMENTE…
…questo spazio aveva una destinazione diversa, poi è diventato di necessità un ambiente da esposizione, per ospitare alcuni oggetti artigianali “ereditati”.
Si tratta innanzitutto di alcuni cesti intrecciati, che facevano parte di una grande mostra allestita 50 anni fa dal prof. Gastone Venturelli per il Centro Tradizioni Popolari di Lucca, che aveva appena fondato. Lo studioso, nativo di Eglio, un paese della Garfagnana, aveva raccolto parecchi cesti nella provincia di Lucca, poi li aveva catalogati e inseriti in una guida per illustrarne le caratteristiche di fabbricazione e d’uso; questi manufatti della civiltà contadina furono quindi messi in mostra in varie località italiane ed europee.
Dopo la morte prematura del professore, avvenuta nel 1995, fu inaugurata a Piazza al Serchio la Biblioteca Comunale, con l’intitolazione allo stesso Gastone Venturelli, storico delle tradizioni popolari ed esperto del maggio drammatico; in quell’occasione la Prof.ssa Maria Elena Giusti, sua erede, donò alla nuova biblioteca alcuni di quei cesti. Nel 2019 nacque il Museo Italiano dell’Immaginario Folklorico e si pensò di spostarli in questa sede (dedicata alla tradizione folklorica nei suoi aspetti fantastici e immateriali: i racconti), poiché la biblioteca fu chiusa in seguito al terremoto del 2013. I cesti vennero così ad abbellire le nicchie di questa piccola sala. Accanto ad ogni oggetto intrecciato si legge il nome sul cartellino e, inquadrando col cellulare o col tablet il QRcode, ci si connette ad un breve testo descrittivo dell’oggetto stesso.
IL TELAIO
Questo telaio meccanico dell’Ottocento cattura l’attenzione per la sua mole. E’ stato acquistato nel paese di Ponteccio (comune di Sillano-Giuncugnano); è robusto, ben conservato e perfettamente funzionante e attende solo che mani esperte lo facciano rivivere.
Faceva parte di un gruppo di tre telai in legno che furono comprati col contributo della Regione Toscana nella seconda metà degli anni Ottanta: dovevano servire a realizzare dei laboratori didattici operativi per le scuole del territorio e così fu per diversi anni. Su questo telaio hanno lavorato, oltre ai ragazzi di Piazza e di Magliano, anche gruppi di donne adulte che volevano apprendere l’arte della tessitura.
L’Amministrazione Comunale, concedendone l’installazione qui al Museo, insieme ai cesti, ha di fatto permesso il salvataggio di questi oggetti dei secoli scorsi, che altrimenti si sarebbero deteriorati in qualche deposito.
Ma che senso ha collocare un telaio e dei cesti in un museo che non si qualifica come etnografico?
Certamente esiste un legame culturale tra fiabe e leggende dell’immaginario, narrate nelle case davanti al camino acceso o nel tepore delle stalle alla luce delle lanterne, e la pratica tutta manuale del tessere e dell’intrecciare che impegnava uomini e donne durante le serate “a veglio”. Anche i racconti popolari sono frutto della stessa millenaria cultura contadina, arrivati a noi oralmente come la maggior parte dei saperi tramandati da quella cultura.
In più, c’è una relazione più profonda, simbolica, che lega le storie alla combinazione varia dei vimini o dei filati: la varietà dei motivi e degli intrecci, la fantasia dei colori e delle immagini, la continua produzione di varianti in corso di trasmissione che osserviamo nelle tessiture, sono caratteristiche che troviamo anche nella tradizione orale dei racconti. Potremmo definire questo telaio una grande metafora ‘concreta’ delle narrazioni popolari.
LA FILATURA E LA TESSITURA NEL MITO E NELLA POESIA…
La sua presenza ci rinvia inoltre all’immagine della donna che per secoli ha utilizzato questo strumento di lavoro, così ricorrente nelle fiabe come il fuso e l’arcolaio. Il telaio è anche un simbolo della memoria che lega noi, donne e uomini della modernità, al mondo antico e alla dimensione del mito. Tutti sanno che Penelope tesseva una tela per ritardare le nozze con uno dei Proci. E sempre nell’Odissea, come ricorda in un saggio* il prof. Borghini, direttore del Museo, le dee Circe e Calipso lavoravano al telaio e intanto diffondevano il loro canto. Voci e gesti arcaici che si ritrovano nell’Eneide, quando il pio Enea si accosta senza approdare alle sponde del Circeo dove risuona nelle selve inaccessibili il “canto assiduo” di Circe che tesse al telaio. E ancora, pochi secoli dopo, Proserpina, nel poema incompiuto di Claudiano (“De raptu Proserpinae”), cantava e tesseva nella casa prima che Plutone la rapisse e la conducesse come sua sposa nell’oltretomba. L’immagine della donna che canta mentre fila o lavora al telaio viaggia attraverso i secoli e riaffiora potente nell’icona più moderna della Silvia leopardiana: la ragazza, destinata a morte prematura, fa risuonare il suo canto dall’interno della casa, come le antiche dee: <Sonavan le quiete stanze e le vie d’intorno>. Ma si potrebbe continuare fino al Novecento, quando Pascoli, nei “Canti di Castelvecchio”, incontra “la tessitrice”, che gli fa posto sulla panchetta. Questa volta però l’incanto è rotto, perché il poeta incredulo trova una presenza muta, che si rivela alla fine il fantasma di una morta. Nel Pascoli vive la reminiscenza di Virgilio, ma il canto della donna si è spento; mentre la spola passa e ripassa, anch’essa muta, il poeta piange e chiede sgomento alla tessitrice perché quel telaio non risuoni più.
- “Leopardi, A Silvia: un modello antico (Claudiano); il nome di Silvia” di Alberto Borghini e Mario Seita. … E NELLA FIABA
FIABA
Il tema della filatrice e/o tessitrice è ben presente nella fiabistica italiana e soprattutto europea, attraverso autori celebri (Basile, Perrault, i fratelli Grimm, Andersen e altri). Non dobbiamo però dimenticare che quelle fiabe vivevano e circolavano prima di loro, in forma orale e non scritta, senza paternità d’autore, con infinite varianti, che dipendevano dai narratori, dal pubblico, dai luoghi, dai tempi storici e dal contesto immediato in cui si raccontavano. I grandi autori di fiabe le hanno semplicemente raccolte e trascritte, fissandole in una lingua d’arte, in uno stile, in una variante che è anche il risultato di personali modificazioni rispetto alla narrazione.
Il motivo della filatura/tessitura, attività eminentemente femminile, ci fa incontrare oggetti e utensili* oggi caduti in disuso, che in ambito popolare erano per così dire attributi della femminilità; inoltre, fatto ancor più interessante, ci mostra il contesto sociale e psicologico in
cui operavano le donne: un contesto di assoluta povertà e segregazione da cui desideravano emanciparsi. In alcune fiabe-tipo, il filatoio o il telaio sono l’unica realtà esistenziale della ragazza povera o ridotta in stato di semi-schiavitù (così in alcune versioni di Cenerentola); in altre si vuole nobilitare, valorizzare la ragazza che fila e tesse come esempio di moralità operosa, spesso contrapposta ad un altro modello, negativo, che è quello della ragazza oziosa e scioperata (Le due sorelle; La filatrice pigra); in altre ancora gli strumenti del mestiere diventano causa o pretesto per un sortilegio (nelle versioni de La bella addormentata), o mezzi per determinare il destino altrui (Tremotino; Ziricochel), o preludio ad una grande fortuna (come in alcune versioni medievali della leggenda di Berta, che darà luogo all’espressione “ai tempi di Berta che filava”).
Segue una rassegna di alcune delle principali fiabe che contengono il tema della filatura/tessitura.
- GLOSSARIO
ROCCA: Strumento per la filatura a mano, formato da un’asta di canna o di legno leggero, lunga circa un metro, che ad un’estremità presenta un rigonfiamento sul quale si arrotola la fibra tessile.
ROCCHETTO: Strumento cilindrico, in genere di legno, usato in tessitura per avvolgervi il filato.
ASPO: Strumento girevole, anticamente in legno, usato per avvolgere il filo in matasse, un tempo formato da un insieme di pioli a forma di X.
FUSO: Strumento di legno arrotondato sul quale viene avvolto il filato,che serve a filare, a torcere e arrotondare il filo; è rigonfio al centro e sottile alle estremità.
ARCOLAIO: Apparecchio per ridurre le matasse di filo in gomitoli, composto da un asse verticale, dal girello che sostiene il castello di stecche di legno e da una ruota azionata a pedale.
CONOCCHIA: Sinonimo di rocca.
PENNECCHIO: Quantità di lino, canapa o altra fibra tessile che, sistemata in forma di cono, viene avvolta o appoggiata intorno alla rocca per essere filata attraverso il fuso.
GUINDOLO: Strumento usato dai filatori per trarre la seta dai bozzoli o per dipanare le matasse. E’ usato come sinonimo di bindolo, aspo, arcolaio.
MATASSA: Filato tessile continuo, avvolto in spire ordinate su un supporto, di solito girevole (aspo o guindolo).
TELAIO: Macchina tessile dotata di organi adatti all’intreccio di due o più filati per confezionare un tessuto mediante varie modalità di esecuzione, la più semplice delle quali è costituita dall’ordito e dalla trama. Nel tipo primitivo di tale macchina gli organi sono manovrati a mano e con pedali.
FIABE e RACCONTI
Rosaspina
Jacob e Wilhelm Grimm
Molto tempo fa vivevano un re e una regina che ogni giorno sospiravano: – Ah, se avessimo un bambino! – Ma non riuscivano mai ad averne uno. Accadde che, mentre la regina faceva il bagno, un rospo uscì dall’acqua e, saltato a terra, le disse: – Il tuo desiderio verrà esaudito e prima che sia trascorso un anno darai alla luce una bambina. Le parole del rospo si avverarono e la regina ebbe una bambina talmente bella che il re, fuori di sé dalla gioia, organizzò una grande festa. Invitò non solo parenti, amici e conoscenti, ma anche le fate del regno affinché fossero benevole e bendisposte verso di lei.
Nel suo regno vivevano tredici fate ma, poiché a corte c’erano solo dodici piatti d’oro, una di loro non fu invitata. La festa venne celebrata con ogni sfarzo e al termine le fate offrirono a turno alla bambina i loro doni preziosi: una le regalò la virtù, un’altra la bellezza, un’altra ancora la ricchezza e così via, tutto quello che si potesse desiderare al mondo. L’undicesima aveva appena terminato di parlare quando all’improvviso entrò la tredicesima fata. Voleva vendicarsi per non essere stata invitata e, senza salutare e senza guardare in faccia nessuno, esclamò a gran voce: – Quando compirà quindici anni la figlia del re si pungerà con un fuso e morirà. – E senza aggiungere altro, si voltò e se ne andò. Tutti rimasero terrorizzati, quand’ecco entrare la dodicesima fata che non aveva ancora offerto il suo dono alla bambina. Non era in grado di annullare quella terribile maledizione, ma poteva mitigarla e quindi disse: – Non sarà la morte a cogliere la principessa, bensì un sonno profondo che durerà cent’anni. Il re, che desiderava con tutto il cuore proteggere la figlia dalla sventura, ordinò che tutti i fusi del regno venissero bruciati. Nel frattempo i desideri che le fate avevano espresso per la bambina si erano avverati ed ella cresceva così bella, virtuosa, gentile e intelligente che chiunque la incontrasse non poteva che volerle bene. Accadde però che, proprio il giorno del suo quindicesimo compleanno, il re e la regina fossero in giro per il regno e la ragazza fosse rimasta sola nel castello. Curiosò in ogni angolo, visitò stanze e saloni a suo piacere, finché giunse a una vecchia torre. Salì lungo la stretta scala a chiocciola e in cima vide una porticina. Nella serratura c’era una vecchia chiave arrugginita e non appena la girò la porta si aprì e le apparve una vecchietta che con il fuso filava instancabile la sua tela. – Buon giorno, nonnina! – esclamò la principessa. – Cosa stai facendo? – Sto filando, – rispose la vecchietta dondolando la testa. – Cos’è quella cosa che saltella così allegramente? – domandò la ragazzina e afferrò il fuso per mettersi anche lei a filare, ma, non appena lo ebbe preso in mano, la maledizione si avverò e si punse un dito.
Nello stesso istante in cui si ferì, cadde su un letto che stava lì accanto e venne avvolta in un sonno profondo. Il sonno colpì tutto il castello: il re e la regina, che erano appena ritornati e stavano entrando nel salone, lentamente si addormentarono e con loro tutta la corte. Si addormentarono i cavalli nelle stalle, i cani nei cortili, le colombe sui tetti, le mosche alle pareti e perfino il fuoco che scoppiettava nel camino si spense e si assopì, e l’arrosto smise di crepitare e il cuoco, che stava per prendere per i capelli un giovane aiutante colto in fallo, lo lasciò andare e cadde addormentato. Anche il vento si fermò e sugli alberi davanti al castello non si mosse più nemmeno una foglia. Tutt’intorno al castello cominciò a crescere una siepe di rovi che ogni anno diventava più alta e che infine lo circondò completamente e lo superò in altezza impedendone la vista, tanto da nascondere anche la bandiera sul tetto.
La leggenda della bella Rosaspina, come da quel giorno venne chiamata la principessa, fece il giro di tutto il reame, e di tanto in tanto giungevano al castello dei principi che cercavano di passare attraverso le sterpaglie ed entrare nel castello. Ma ogni loro tentativo era vano poiché le spine, quasi fossero dita intrecciate, si stringevano sempre di più imprigionando i giovanotti che non riuscivano più a liberarsi e morivano fra atroci sofferenze. Moltissimi anni dopo, giunse in quel paese un principe che sentì raccontare da un vecchio la storia di un castello nascosto da cespugli di rovi, dove viveva una bellissima principessa chiamata Rosaspina, che dormiva già da cent’anni insieme al re, alla regina e a tutta la corte. Il nonno del vecchio gli aveva raccontato che già molti principi erano giunti fin là per cercare di aprirsi un varco fra le spine, ma che vi erano rimasti impigliati ed erano andati incontro a una morte tremenda. – Io non ho paura, voglio andare al castello e vedere la bella addormentata, – disse il giovane principe. Il vecchio cercò in tutti i modi di dissuaderlo ma il principe non volle sentire ragioni.
I cent’anni stavano per scadere ed era giunto il giorno in cui Rosaspina si sarebbe risvegliata. Il principe si avvicinò alle siepi e le vide cariche di splendidi fiori e, come d’incanto, gli intrecci d’insidiose spine si sciolsero per lasciarlo passare e si richiusero alle sue spalle formando di nuovo cespugli impenetrabili. Nel cortile del castello vide i cavalli e i cani da caccia che dormivano, mentre sul tetto le colombe tenevano la testolina piegata sotto l’ala. Quando entrò nel castello vide le mosche che dormivano sulle pareti, il cuoco con la mano ancora alzata per afferrare il giovane aiutante e la domestica seduta con in grembo la gallina da spennare. Attraversando i saloni vide tutta la corte addormentata e, riversi sul trono, il re e la regina. Proseguì in un silenzio talmente profondo che sentiva perfino il proprio respiro, e infine giunse alla vecchia torre e aprì la porta della stanzetta dove dormiva la principessa. La vide sdraiata sul letto e, rapito da tanta bellezza, a lungo non riuscì a distogliere lo sguardo da lei; poi si chinò e la baciò.
Non appena l’ebbe sfiorata con le labbra Rosaspina aprì gli occhi, si risvegliò e lo guardò amorevolmente. Scesero insieme dalla torre e il re, la regina e tutta la corte si risvegliarono e si guardarono con gli occhi pieni di stupore. I cavalli nel cortile si scrollarono e si rimisero sulle zampe, i cani da caccia presero a saltellare e a guaire, le colombe sul tetto alzarono la testolina da sotto l’ala, si guardarono attorno e presero il volo, le mosche ripresero a ronzare sulle pareti, il fuoco in cucina riprese a scoppiettare e a riscaldare il cibo, l’arrosto ricominciò a rosolare, il cuoco diede una sberla al ragazzo facendolo urlare e la domestica finì di spennare la gallina.
Le nozze fra il principe e Rosaspina vennero celebrate con grande sfarzo ed essi vissero felici e contenti per tutta la vita.
Sole Luna e Talia
Giovan Battista Basile, Il Pentamerone, 1634, Giornata V, Racconto V
C’era una volta un gran signore che, essendogli nata una figlia che aveva chiamato Talia, fece venire tutti i sapienti e gli indovini del suo regno per prevederne il futuro. Costoro, dopo varie riunioni, conclusero che la bambina avrebbe corso un gran pericolo a causa di una resta di lino: per questo motivo il gran signore stabilì che nella sua casa non entrassero mai né lino né canapa né altra cosa simile, per sfuggire a questa maledizione.
Un giorno, mentre Talia, ormai grandicella, stava alla finestra, vide passare una vecchia che filava e, siccome non aveva mai visto né un fuso né una conocchia, fu talmente attratta e incuriosita da tutto quel movimento rotatorio che decise di far salire in casa la vecchia. Presa la rocca in mano, cominciò a svolgere il filo, ma per disgrazia le si conficcò una resta di lino in un’unghia e lei cadde a terra morta. La vecchia, vedendo quello che era accaduto, si precipitò giù per le scale e ancora sta correndo. Il povero padre, saputo della disgrazia, dopo aver pagato con un barile di lacrime questo secchio di asprinio , la mise nello stesso palazzo che stava in campagna, seduta su una sedia di velluto, sotto un baldacchino di broccato; poi chiuse tutte le porte e abbandonò per sempre quel palazzo che era stato causa di tanto dolore, per cancellare ogni memoria di questa disgrazia.
Un giorno, a un re che passava da quelle parti per andare a caccia, sfuggì un falco che volò dentro una finestra di quella casa. Poiché l’uccello non tornava al suo richiamo, il re fece bussare alla porta, credendo che il palazzo fosse abitato; poiché nessuno rispondeva, fece portare una scala da vignaiolo e volle personalmente salire per vedere cosa ci fosse dentro e, dopo aver girato dappertutto, restò come una mummia, perché trovò nessuno. Alla fine arrivò nella camera dove c’era Talia prigioniera dell’incantesimo; il giovane, credendo che dormisse, la chiamò, ma, per quanto gridasse, lei non si risvegliava e lui, infiammato da tanta bellezza, la portò di peso su un letto e ne colse i frutti dell’amore; poi la lasciò coricata e se ne tornò nel suo regno, dove per lungo tempo non ricordò quello che era accaduto.
Dopo nove mesi la fanciulla partorì due gemelli, un maschio e una femmina, così belli che sembravano due gioielli e dei quali si presero cura due fate, comparse in quel palazzo, che li attaccarono ai seni della mamma. Un giorno i bambini, volendo succhiare e non trovando il capezzolo, le afferrarono il dito della mano e tanto succhiarono che ne estrassero la resta. Per la qualcosa Talia si risvegliò da quel gran sonno e, visti al suo fianco quei due gioielli, porse loro il seno e li tenne cari quanto la vita. Talia si domandava cosa le fosse accaduto e come si fosse ritrovata sola in quel palazzo con due figli e chi le fornisse il cibo, ma non riusciva a trovare risposta. Intanto il re, che si era ricordato di lei, con il pretesto di andare a caccia, andò a cercarla e, trovandola sveglia e con due bellezze che parevano dipinte, ne ebbe un piacere enorme. E così, spiegato a Talia chi era e come era accaduto tutto ciò, si legarono con un affetto molto forte e restarono insieme per una manciata di giorni.
Quando il re dovette ripartire, promise alla ragazza che sarebbe ritornato a prenderla e, rientrato nel suo regno, cominciò a parlare di lei e dei figli a tutte le ore. Quando mangiava, aveva in bocca il nome di Talia e dei due figli, che avevano chiamato Sole e Luna e, quando andava a dormire, li nominava prima di coricarsi. La moglie del re, insospettita dal ritardo con il quale il marito era tornato, e sentendolo nominare sempre Talia, Luna e Sole, cominciò a accalorarsi più che se avesse preso un colpo di sole e, chiamato il segretario, gli disse: “Sentimi bene, figlio mio, tu sei tra Scilla e Cariddi, tra lo stipite e la porta, tra l’incudine e il martello. Se mi dici di chi si è innamorato mio marito, io ti faccio ricco, se invece me lo nascondi, farò in modo che tu non venga mai ritrovato né vivo né morto.” Il compare, da una parte stravolto dalla paura, dall’altra spinto dall’interesse che spesso acceca l’onore, appanna la giustizia e fa dimenticare la fedeltà, le raccontò, pane al pane e vino al vino, ogni cosa. Allora la regina lo mandò da Talia a dirle che il re voleva vedere i suoi figli e la fanciulla fu ben contenta di acconsentire. Ma la regina, che aveva un cuore da Medea, comandò al cuoco di scannare i due fanciulli, di farne minestre e cose saporite e darli da mangiare al povero marito. Il cuoco, che era tenero di cuore, visti questi due pomi d’oro, ne ebbe compassione e li consegnò alla moglie perché li nascondesse; poi preparò due capretti in cento modi.
Quando arrivò il re, la regina con grande piacere fece portare le vivande e, mentre il re banchettava con gran gusto, complimentandosi ad ogni portata, la regina lo esortava a continuare, perché mangiava del suo. Il re per due o tre volte non fece caso a questa manfrina, infine, stanco della stessa musica, rispose: “Lo so che mangio del mio, perché tu non hai portato niente in questa casa!” e, alzatosi stizzito, se ne andò in una villa poco lontana a sfogare la sua rabbia. Nel frattempo la regina, non sazia da quanto aveva già fatto, convocato di nuovo il segretario, lo mandò a chiamare Talia con la scusa che il re l’aspettava; la ragazza accorse subito, col desiderio di ritrovare la sua luce, non sapendo che invece l’aspettava il fuoco. Ma, arrivata davanti alla regina, questa, con una faccia da Nerone, tutta inviperita, le disse: “Sii la benvenuta, signora Troccola! Tu sei quella pezza fine, quella cattiva erba che se la spassa con mio marito! Tu sei quella cagna randagia che mi fa avere tanti pensieri per la testa? Vai, che sei arrivata al purgatorio, dove ti farò scontare tutto quello che mi hai fatto!” Talia, sentendo tutto questo, cercò di scusarsi, spiegando che non era colpa sua se il marito l’aveva posseduta quando lei era ancora addormentata. Ma la regina non voleva sentire scuse; fece accendere nel cortile del palazzo un grande fuoco e ordinò che ce la sbattessero dentro. Talia, vedendo la mala parata, s’inginocchiò davanti alla regina e la pregò che le desse almeno il tempo di togliersi i vestiti che aveva addosso. La regina, non tanto per misericordia della povera giovane, quanto per impossessarsi di quei bei vestiti ricamati d’oro e di perle, le concesse di spogliarsi. Talia cominciò a spogliarsi ed ad ogni capo di vestiario che si levava, lanciava uno strillo; quando ebbe tolto tutti i vestiti, la gonna e il corsetto, come fu per levarsi la gonnella, lanciò l’ultimo grido.
Mentre la trascinavano a diventare cenere per il bucato, arrivò il re che, visto quello spettacolo, volle sapere cosa era successo e, quando chiese notizie dei figli, seppe dalla stessa moglie, che gli rinfacciava il tradimento, la fine che gli aveva fatto fare. Il povero re, sentita questa confessione, in preda alla disperazione, non si dava pace, si accusava di essere stato lui stesso il lupo mannaro delle sue pecorelle e si chiedeva perché le sue vene non avevano riconosciuto il sangue del suo sangue. Rivolto alla moglie, la chiamava turca rinnegata e cagna feroce e le giurava un supplizio terribile e senza pietà. E così dicendo, ordinò che fosse gettata nello stesso fuoco che aveva acceso per Talia e che insieme a lei fosse bruciato anche il segretario che era stato complice di questo macabro gioco e tessitore di questa perversa trama.
Avrebbe voluto far fare la stessa fine anche al cuoco, pensando che avesse fatto a pezzi i suoi figli, ma costui, gettandosi ai suoi piedi, gli spiegò che non meritava di essere buttato sulle braci insieme alla regina, ma che anzi avrebbe dovuto ricevere una grande ricompensa perché, a dispetto degli ordini di quella cagna feroce, lui, invece di uccidere i suoi figli e darglieli in pasto, li aveva salvati. Il re, a queste parole, andò fuori di sé per la gioia e gli sembrava di sognare, poiché non riusciva a credere a quello che sentivano le sue orecchie e, voltatosi verso il cuoco, gli confermò che, se davvero aveva salvato i suoi figli, poteva star certo che non solo non avrebbe fatto la fine di uno spiedino, ma sarebbe diventato l’uomo più felice del mondo, perché lui stesso avrebbe esaudito ogni suo desiderio. Mentre il re diceva queste parole, la moglie del cuoco, visto il rischio che stava correndo suo marito, portò Luna e Sole davanti al padre, il quale, dalla gioia, cominciò a scherzare e giocare con moglie e figli passando da uno all’altro e riempiendoli di baci.
Poi diede un grande premio al cuoco e lo promosse maggiordomo di camera, quindi sposò Talia, la quale visse felice una lunga vita con marito e figli, riconoscendo che è proprio vero che chi ha fortuna anche quando dorme gli piove il bene dall’alto.
La gatta Cenerentola
Giovan Battista Basile, Il Pentamerone, Giornata I
C’era, dunque, una volta un principe vedovo, il quale aveva una figlia a lui tanto cara che non vedeva per altri occhi. Le aveva dato una maestra da cucire di prima riga, che le insegnava le catenelle, il punto in aria, le frange e le orlature, dimostrandole tanta affezione che non si potrebbe dire. Ma, essendosi il padre riammogliato di fresco e avendo preso una rabbiosa, malvagia e indiavolata femmina, questa maledetta cominciò ad avere in odio la figliastra, facendole cère brusche, visi torti, occhiate di cipiglio, da darle il soprassalto per la paura.
La povera fanciulla si lamentava sempre con la maestra dei maltrattamenti della matrigna, conchiudendo: «Oh Dio, e non potresti esser tu la mammina mia, tu che mi fai tanti vezzi e carezze?». E tante volte le ripeté questa cantilena, che le mise una vespa nell’orecchio, sicché, accecata dal diavolo, la maestra finì col dirle: «Se vuoi fare a modo di questa testa matta, io ti sarò mamma e tu sarai la pupilla degli occhi miei». Stava per continuare in questo prologo, quando Zezolla (che così si chiamava la giovane) la interruppe: «Perdonami se ti rompo la parola in bocca. So che mi vuoi bene; perciò zitto e sufficit; insegnami l’arte, che io sono nuova: tu scrivi e io firmo». «Orsù! – replicò la maestra, – ascolta bene, apri gli orecchi, e godrai sempre pane bianco di fior di farina. Quando tuo padre va fuori di casa, di’ alla tua matrigna che vuoi un vestito di quei vecchi, che stanno nel cassone grande del ripostiglio, per risparmiare questo che porti addosso. Essa, che ti vuol vedere tutta cenci e brandelli, aprirà il cassone e dirà: – Tieni il coperchio. – E tu, tenendolo, mentr’essa andrà rovistando là dentro, lascialo cader di colpo, che le fiaccherà il collo. Dopo di ciò, sai bene che tuo padre farebbe moneta falsa per amor tuo; e tu, quando egli ti carezza, pregalo di prendermi per moglie, ché, te beata, sarai la padrona della mia vita».
Udito il disegno, a Zezolla ogni ora parve mille anni; e, messo in atto punto per punto il consiglio della maestra, quando fu trascorso il tempo del lutto per la morte della matrigna, cominciò a toccare i tasti al padre affinché s’ammogliasse con la sua maestra. Dapprima, il principe prese la cosa in celia; ma tante volte Zezolla tirò di piatto, che, infine, colpì di punta, ed egli si piegò alle persuasioni della figliuola. Così si sposò con la maestra Carmosina, e si fece una festa grande. Ora, mentre gli sposi stavano in gaudio, Zezolla si affacciò a un gaifo della sua casa; e in quel punto una colombella volò sopra un muro e le disse: «Quando ti vien desio di qualche cosa, manda a dimandarla alla colombella delle fate dell’isola di Sardegna, ché tu l’avrai subito». Per cinque o sei giorni la nuova matrigna incensò con ogni sorta di carezze Zezolla, facendola sedere al miglior luogo della tavola, dandole i migliori bocconi e adornandola con le migliori vesti. Ma, corso pochissimo tempo, mandò a monte e scordò affatto il servigio ricevuto (oh trista l’anima, che ha cattiva padrona!), e cominciò a mettere in iscranna sei figlie sue, che fin allora aveva tenute segrete; e tanto fece che il marito, presele in grazia, si lasciò cascar dal cuore la figlia sua propria. E Zezolla, scapita oggi, manca domani, finì col ridursi a tal punto che dalla camera passò alla cucina, dal baldacchino al focolare, dagli sfoggi di seta e oro agli strofinaccioli, dagli scettri agli spiedi. Né solo cangiò stato, ma anche nome, e non più Zezolla, ma fu chiamata «Gatta cenerentola».
Ora seguì che, dovendo il principe andare in Sardegna per cose necessarie al suo stato, prima di partire domandò a una a una, a Imperia, Calamita, Fiorella, Diamante, Colombina e Pascarella, che erano le sei figliastre, che cosa volevano che portasse loro al ritorno. E chi gli chiese un abito di lusso, chi galanterie pel capo, chi belletti per la faccia, chi giocattoli per passare il tempo; e chi una cosa e chi un’altra. In ultimo, e quasi per dileggio, egli disse alla figlia: «E tu, che cosa vorresti?». Ed essa: «Nient’altro se non che mi raccomandi alla colomba delle fate, che mi mandi qualcosa; e, se ti dimentichi, che tu non possa andare né innanzi né indietro. Tieni bene a mente quel che ti dico: arma tua, manica tua».
Partì il principe, sbrigò le sue faccende in Sardegna, comprò quanto gli avevano chiesto le figliastre, e Zezolla gli uscì di mente. Ma, quando si fu imbarcato e già erano state spiegate le vele, non fu possibile far che il vascello si staccasse dal porto: pareva che ne fosse impedito dalla remora. Il padrone della nave, ch’era quasi disperato, si mise a dormire per la stanchezza, e in sogno gli apparve una fata, che gli annunziò: «Sai perché non potete più staccarvi dal porto? Perché il principe, che vien con voi, ha mancato alla promessa verso la figlia, ricordandosi di tutti, fuorché del sangue proprio». Appena svegliato, il capitano raccontò il sogno al principe, che, confuso per la mancanza commessa, andò alla grotta delle fate, e, raccomandata loro la figliuola, le pregò di mandarle qualche dono. Ed ecco uscir fuori dalla spelonca una bella giovane, che pareva un gonfalone, e gli disse di ringraziar la figliuola della buona memoria, e che se la passasse lieta per amor suo. Con queste parole, gli porse un dattero, una zappa, un secchietto d’oro e un asciugatoio di seta: il dattero da esser piantato, e le altre cose per coltivarlo e curarlo. Il principe, meravigliato di questo regalo, si accommiatò dalla fata, volgendosi al suo paese; dove, giunto, distribuì alle figliastre le cose che avevano desiderate, e in ultimo consegnò alla figlia il dono della fata. Zezolla, con giubilo grande da non stare nella pelle, piantò il dattero in un bel vaso; e mattina e sera lo zappettava, lo innaffiava e lo asciugava col tovagliuolo di seta.
Con queste cure, il dattero crebbe in quattro giorni alla statura di una donna, e ne venne fuori una fata, che domandò alla fanciulla: «Che cosa desideri?». Zezolla rispose che desiderava uscir qualche volta di casa, e che le sorelle non lo sapessero. Rispose la fata: «Ogni volta che ti piaccia, vieni alla pianta e le di’: – Dattero mio dorato, con la zappetta d’oro t’ho zappato; con il secchietto d’oro innaffiato; con la fascia di seta t’ho asciugato. Spoglia te e vesti me! Quando poi vorrai spogliarti, cangia l’ultimo verso e di’: – Spoglia me e vesti te!».
Venne un giorno di festa, e le figliuole della maestra erano andate in processione fuor di casa, tutte spampanate, strigliate e imbiaccate, tutte nastrini, sonaglini e fronzellini, tutte fiori e odori, rose e cose. Zezolla corse allora alla sua pianta, pronunziò le parole insegnatele dalla fata e subito fu posta in assetto di regina, sopra una chinea, con dodici paggi attillati e azzimati, e andò anche lei dove erano le sorelle, che non la riconobbero, ma si sentirono venir l’acquolina in bocca per le bellezze di questa vaga colomba. Volle fortuna che nello stesso luogo capitasse il re, che, alla vista della straordinaria bellezza di Zezolla, rimase incantato, e ordinò a un servitore suo più intrinseco che s’informasse nel miglior modo di quella bellissima creatura, chi fosse e dove abitasse. Il servitore si mise subito a pedinarla. Ma essa, che s’accorse dell’agguato, gettò una manata di scudi ricci, che s’era fatti dare dal dattero a quest’effetto; e il servitore, acceso di brama a quei pezzi luccicanti, si scordò di seguire la chinea, fermandosi a raccogliere i denari. Ed essa di balzo entrò in casa, si spogliò rapidamente nel modo come la fata la aveva istruita; e sopraggiunsero poi le sei arpie delle sorelle, che, per pungerla e mortificarla, le descrissero a lungo le tante cose belle, che avevano viste alla festa.
Il servitore, intanto, era tornato al re e gli aveva raccontato il fatto degli scudi. Si adirò il re e con stizza grande gli disse che, per quattro vili monetuzze, aveva venduto il gusto suo, e che, per ogni conto, avesse procurato nella ventura festa di appurare chi fosse quella bella giovane, e dove s’annidasse così leggiadro uccello. Venne l’altra festa e le sorelle, uscendo tutte adorne e galanti, lasciarono la disprezzata Zezolla al focolare. Ma immantinente essa corse al dattero, disse le parole solite, ed ecco proromperne una schiera di damigelle, chi con lo specchio, chi con la boccetta d’acqua di cucuzza, chi col ferro per arricciare, chi col pezzo di rossetto, chi col pettine, chi con gli spilli, chi con le vesti, chi con collane e pendenti. E tutte si misero attorno a lei, e la fecero bella come un sole, e la collocarono in un cocchio a sei cavalli, accompagnato da staffieri e paggi in livrea. E si recò al medesimo luogo dell’altra volta, e aggiunse meraviglia nel cuore delle sorelle e fuoco nel petto del re. Anche questa volta, al ritorno, il servitore le andò dietro; ma essa, per non farsi arrivare, gettò una manata di perle e gioielli, che quel dabben uomo non poté non chinarsi a beccare, perché non erano cose da lasciar perdere; e così Zezolla ebbe tempo di ridursi a casa sua e spogliarsi conforme al solito.
Tornò il servitore, tutto sbalordito, al re, che gli disse: «Per l’anima dei morti tuoi, se tu non mi ritrovi quella giovane, ti do una solenne bastonatura, e tanti calci nel sedere quanti hai peli alla barba!» Al nuovo giorno di festa, e quando già le sorelle s’erano messe in via, Zezolla tornò al dattero; e ripetendo la canzone fatata, fu vestita superbamente e collocata in una carrozza d’oro con tanti servitori attorno, che pareva una cortigiana arrestata al pubblico passeggio e attorniata dagli sbirri. E, dopo aver eccitato la meraviglia e l’invidia delle sorelle, si partì, seguita dal servitore del re, che questa volta si cucì a filo doppio alla carrozza. Vedendo che sempre le era alle coste, Zezolla gridò: «Tocca, cocchiere!»; e la carrozza si mise in corsa con tanta furia, che a lei, in quell’agitazione, cadde dal piede la pianella, che non si poteva vedere cosa più ricca e gentile.
Il servitore, non potendo raggiunger la carrozza che ormai volava, raccattò la pianella e la portò al re, narrandogli quanto gli era accaduto. Il re la tolse tra le mani ed uscì in questi detti: «Se il fondamento è così bello, che sarà mai la casa? O bel candeliere, dove è stata infissa la candela che mi consuma! O treppiede della bella caldaia, dove bolle la mia vita! O bei sugheri, attaccati alla lenza d’amore, con la quale ha pescato quest’anima! Ecco, io vi abbraccio e vi stringo, e, se non posso giungere alla pianta, adoro le radici; se non posso attingere i capitelli, bacio le basi! Voi già foste ceppi di un bianco piede, e ora siete tagliuola d’un cuore addolorato. Per virtù vostra, colei, che tiranneggia la mia vita, era alta un palmo e mezzo di più; e per voi cresce altrettanto in dolcezza questa mia vita, mentre vi guardo e vi possiedo!».
Ciò detto, il re chiama lo scrivano, comanda ai trombetti, e tu-tu-tu, fa gettare un bando che tutte le donne del paese vengano a una festa e a un banchetto che ha determinato di dare. Nel giorno stabilito, oh bene mio! quale masticatorio e quale fiera fu quella! Donde uscirono tante pastiere e casatelli? Donde gli stufati e le polpette? Donde i maccheroni e i graviuoli, che poteva saziarvisi un esercito intero? Le femmine c’erano tutte e di ogni qualità, e nobili e ignobili, e ricche e pezzenti, e vecchie e giovani, e belle e brutte; e, poiché ebbero ben lavorato coi denti, il re, fatto il propizio, si mise a provare la pianella a una a una a tutte le invitate per vedere a chi di esse andasse a cappello e bene assestata, tanto che egli potesse dalla forma della pianella conoscer quella che andava cercando. Ma non trovò alcun piede a cui andasse a sesto, e fu sul punto di disperare. Nondimeno, imposto generale silenzio, disse: «Tornate domani a far penitenza con me; ma, se mi volete bene, non lasciate nessuna femmina a casa, e sia quale sia». Parlò allora il principe: «Io ho una figlia, ma sta sempre a guardare il focolare, perché è una creatura disgraziata e dappoco, non meritevole di sedere dove mangiate voi». Replicò il re: «Questa sia a capo di lista, perché l’ho caro».
Così partirono, e il giorno dopo tornarono tutte, e, insieme con le figlie di Carmosina, Zezolla, la quale, come il re la vide, gli dié l’impressione di quella che desiderava; e nondimeno dissimulò. Ma, finito il desinare, si venne alla prova della pianella, che, non appena fu appressata al piede di Zezolla, si lanciò di per sé stessa, come il ferro corre alla calamita, a calzare quel cocco pinto d’Amore. Il re allora strinse Zezolla tra le sue braccia, e, condottala sotto il suo baldacchino, le mise la corona sul capo, ordinando a tutti di farle inchini e riverenze come a loro regina. Le sorelle, livide d’invidia, non potendo reggere allo schianto dei loro cuori, filarono mogie mogie verso la casa della madre, confessando a lor dispetto che pazzo è chi contrasta con le stelle.
Tremotino
Jakob e Wilhelm Grimm
C’era una volta un mugnaio che era molto povero, ma possedeva un gran bene, aveva una bella figliuola. Un giorno, non si sa come, gli avvenne di parlare col re, e per fare bella figura ed esser tenuto da più di quello che non si fosse, disse: — Figuratevi, maestà, ci ho una figlia che sa filar la paglia e farla diventar oro! Il re, appena ebbe udito questa meraviglia, ordinò che la figlia del mugnaio gli fosse condotta, senza indugio.
La ragazza arrivò ed egli la menò in una stamberga che era piena di paglia, le dètte filatoio e fuso e le disse: — Fila! Se domattina tutta questa paglia non è filata e diventata oro, devi morire. – Detto ciò, il re chiuse la porta e la bella mugnaina rimase sola. Eccola lì a sedere, col viso fra le mani e, pensa, pensa, non sa come fare. Si mette a piangere a dirotto perchè ormai sa cosa le tocca. Ma s’apre la porticina della soffitta e salta dentro un omiciattolo, tutto voce e penne che le dice: — Buona sera, bella mugnarella: come mai piangi tanto? — Devo filare tutta questa paglia e farla diventare oro! — Che cosa mi regali se te la filo io e la cambio in un bell’oro di zecca, fino e lucente come i capelli tuoi? — La mia collana.
L’omino presa la collana, si sedè al filatoio e cominciò a far girare la ruota. Fila, fila, fila, in tre giri di ruota, il fuso s’empiva d’oro fino e lucente. Giù, altra paglia, altri tre giri di ruota, ecco il fuso pieno d’oro. Giù, paglia ancora e gira gira l’oro si ammassava e la paglia spariva. Quando fu giorno, l’omino non c’era più, e il re al vedere tutto quell’oro invece di ricompensare la mugnaia si lasciò ubriacare dalla vista delle ricchezze e le prolungò il martirio. La condusse in un’altra stamberga piena di paglia, le dètte filatoio e fuso e le disse — Fila! Se domattina tutta questa paglia non è filata e diventata oro, devi morire – e chiusa la porta della soffitta, lasciò la ragazza sola.
Eccola lì, di nuovo a sedere, col viso fra le mani e pensa, pensa, non sa come fare. Si mette a piangere, più che mai disperata perchè ormai sa cosa le tocca. Ma s’apre la porticina, come la prima notte, salta dentro l’omiciattolo, piccino e compiacente, che le dice: — Cosa mi dai, bella mugnarella, se ti filo tutta questa paglia e la muto in oro fino e lucente come i capelli tuoi? — Ti do l’anello che ho in dito. Tieni, piglialo! L’omino prende l’anello e si mette a filare. Come la prima notte, in tre giri di ruota empie il fuso. Come la prima notte, s’ammucchia l’oro e la paglia sparisce. Appena fa giorno, non c’era più un filo di paglia, l’omino è scomparso, la bella mugnaia fa vedere al re tutto l’oro filato che riluce come i suoi capelli. Il re fu tanto contento che più che mai gli si accrebbe l’avidità delle ricchezze e invece di liberare quella ragazza straordinaria, le fece il solito discorsino, aggiungendo che se le fosse riuscito di filare tutta quella paglia, sarebbe diventata la sua sposa.
Ella stette zitta, ma come l’uscio fu chiuso e si vide sola, si diede a piangere tutte le lagrime che le restavano. Però anche la terza notte, comparve l’omino, tutto allegro e premuroso, che le disse con bel garbo ed accompagnando col gesto elegante le parole: — Che cosa mi dai, bella mugnarella, se ti filo la paglia e la muto in oro fino e lucente come i capelli tuoi? — Non ho più nulla da darti! – sospirò la ragazza – più nulla, nanino mio! — Ascolta – riprese l’omiciattolo – quando sarai regina, mi darai il primo principino che ti nascerà. Sta bene? La fanciulla dètte promessa di quanto egli le chiedeva, pur d’essere liberata dalla morte e pensò che se diventasse regina per davvero e le nascesse un reuccio, quell’omino forse non sarebbe tornato o essa avrebbe avuto modo di liberarsene. Ecco l’omino al filatoio tutta la notte. Gira la ruota, senza smetter mai ed empie d’oro la soffitta. Si leva il sole, l’omino e la paglia sono spariti: l’oro è ammucchiato, la bella mugnarella va sposa al re con festa di fiori, musica, banchetti e luminarie.
Passa un anno ed un bel giorno nasce alla corte un bel reuccio. La regina, tutta felice, non pensa più all’omino misterioso, nè alla promessa che essa gli aveva fatto per aver salva la vita. Ma il piccolo nano, ci pensò lui a rammentargliela. Senza tanti complimenti entrò in camera e le disse in poche parole: — Dammi il principino! Sono venuto a prenderlo. La povera madre cominciò a piangere e gli offrì tutte le sue ricchezze. — Porta via quel che vuoi, ma lasciami il mio bambino! – gridava con una voce che avrebbe fatto spezzare le pietre. — No: – insisteva l’altro – mi devi dare una cosa viva; non voglio altro. – E la regina singhiozzava più forte che mai. Ebbe forse compassione di lei quel buffo nanino prepotente e in tono più dolce le parlò così: — Ti do tre giorni di tempo. Se in questi tre giorni ti riesce di sapere il mio nome, il bambino ti rimane. Se no, me lo piglio e tu non lo rivedi più!
Tutta la notte, la bella regina, non fece altro che cercar nomi e ripeterli per tenerli a mente. Mandò fuori un messaggero per raccoglierne ancora di più; e quando il nano ricomparve all’indomani, gliene disse presto, presto, una filastrocca, senza neppure riprender fiato: — Gaspero, Gualtiero, Orlando, Zeffirino, Anacreonte, Pulcinella, Meneghino, Stenterello, Belcore, Codinzolo, Ciuffettino arrabbiato… e via e via tanti altri, raccapezzando quelli più strani, più noti e più difficili. Ma l’omino tutto arzillo scuoteva la testa sorridendo, si fregava le mani e fra un balzello e uno sgambetto, diceva: — No, no, non mi chiamo così. Il giorno dopo, la regina cercò nei libri, fra i nomi di famiglia, mandò un altro messo più svelto a domandare e cercar nomi e quando ricomparve l’omino, gliene sciorinò una litania. Quello però faceva di no con la testa e se la sgambettava che pareva un burattino tirato coi fili.
Al terzo giorno, tornò il messo e disse alla regina così: — Maestà nomi nuovi non ne ho trovati; ma quando sono arrivato in vetta a un monte dove non c’è che lepri e volpi, ho visto un omino piccino, piccino, che saltava intorno ad una fiamma davanti a una casina che pareva fabbricata per i grilli, e mentre faceva un monte di sgambetti, cantava tutto contento «Trallerallì e trallerallà /Nessuno lo sa, nessuno lo sa! /Oggi cuocio al forno; /Domani fo la birra; /Però quell’altro giorno /Mi piglio il principino. /Trallallerillallà / E ancor nessuno sa /Che mi chiamo Tremotino». — È lui, è lui di certo! – gridò la regina fuori di sè per la gioia – il cuore mi dice che Tremotino dev’essere lui. Appena venne il nanino baldanzoso, sicuro di prendere il reuccio e di portarselo via, la regina fece le viste di non aver paglia in becco e gli domandò: — Ti chiami Gerosolimo? — No. — Ti chiami Trippettino, folletto birichino? — No. — Dimmi, – riprese con aria indifferente – per caso ti chiameresti – e stentò la parola – Tremotino? — Chi te l’ha detto?… il diavolo?… – gridò il nano e battè con tanta ira il piede in terra che andò giù chiappato fino alla vita. Poi, rosso in viso come un tizzo, dimenando il torso, afferrò con le due mani il piedino che era rimasto fuori, e si ruppe in due.
Le tre filatrici
Jakob e Wilhelm Grimm
C’era una ragazza molto pigra che non voleva filare; e per quanto la madre tentasse ogni mezzo per persuaderla della necessità del lavoro, essa non prendeva mai il fuso in mano.
La sua mamma era una buona donna e le voleva bene; ma un giorno, persa la pazienza nel vedere la figliuola disoccupata mentre c’era tanta canapa da filare, la prese per un braccio e la picchiò. L’altra si mise a piangere e a gridare così forte che la regina, la quale appunto passava per quella strada, sdraiata nel suo equipaggio, fece fermare i cavalli, smontò di carrozza e entrò a vedere che cosa fosse accaduto e chi mettesse quelle grida. Trovata la ragazza in lacrime, domandò alla donna perchè quella piangesse, ed essa non sapendo subito trovare altra risposta, e non volendo dire la verità che faceva vergogna alla figlia sua, rispose: — Maestà, l’ho sgridata perchè vuole star sempre al filatoio ed io sono povera e non posso comprarle tanta canapa quanta ce ne occorrerebbe. — È bene che vi sieno brave figliuole, lavoratrici e buone da casa. Io mi diverto molto a veder filare, e il rumorino che fa la ruota del filatoio mi piace tanto! Trrr… trrr… è un gusto! Se mi voleste dare questa ragazzina la condurrei nel mio castello, dove troverebbe canapa fin che ne volesse e potrebbe filar tanto da levarsene la voglia. – Così parlò la regina. Alla povera donna questa proposta parve, come ognuno può immaginare, una fortuna piovuta dal cielo; sicchè la ragazza montò nella bella carrozza regale e se ne andò via.
Giunte che furono al castello, la regina condusse la filatrice in tre stanzoni dove era ammontata una canapa finissima che pareva seta: — Vedi – le disse – questa è tutta per te. Quando l’avrai filata tutta, io ti darò in moglie al mio figlio maggiore. Che tu sia una povera ragazza, non m’importa. La tua operosità è meglio della dote e del corredo. Figurarsi come si sentì sgomenta quella giovinetta che non aveva mai voluto prendere il fuso in mano! Guardava la canapa, che s’alzava come un monte davanti agli occhi suoi, e diceva fra sè: — Se campassi cent’anni e stessi al filatoio da mattina a sera, non arriverei mai a filarla tutta! – Appena fu sola, scoppiò in un pianto dirotto e per tre giorni non fu buona a muoversi dal posto dove era caduta a sedere, nè di alzare un dito. Le pareva d’essere morta, soffocata da quella montagna di canapa. Quando venne la regina e vide che il filatoio non era stato toccato si meravigliò e ne domandò alla ragazza la ragione. Questa rispose che la scusasse per pietà perchè fin che non si era abituata a star fuori di casa e lontana dalla mamma non poteva far nulla. Parve alla regina assai bello questo sentimento, ma nell’andarsene disse: — Però domani bisogna che tu cominci a filare!
Trovatasi di nuovo sola, non sapeva come fare per metter la canapa sulla canocchia e prepararsi il lavoro per l’indomani, e pensò che fosse meglio affacciarsi alla finestra a prender aria prima di tutto e scacciar l’uggia. S’affaccia e vede venire in su verso il castello, nella direzione appunto di quella finestra, tre donne. L’una di esse ha il piede destro sproporzionatamente grande e schiacciato come una paletta; l’altra il labbro inferiore sporgente e grossissimo; la terza, il pollice della mano destra cresciuto a dismisura. Come sono sotto le finestre, si fermano, guardano in su e domandano alla ragazza che cosa ha. Ella racconta la sua pena e da quelle sconosciute ha un’offerta che la consola tutta. — Vuoi, – le dicono gentilmente – vuoi invitarci alle nozze quando sarai la sposa del principe, chiamarci cugine senza vergognarti e lasciar che ti sediamo accanto al banchetto? Se accetti, noi in poco tempo ti filiamo tutta la canapa. — Se accetto? – risponde subito la ragazza che non cape in sè dalla gioia – di cuore e subito. Venite pure, entrate e mettetevi al lavoro, se è vero quanto dite.
Entrate le tre strane femmine e data appena un’occhiata al primo stanzone, fanno una breccia sul mucchio della canapa, si mettono a sedere in mezzo e cominciano a lavorare. La prima, quella dal piede largo e schiacciato come una paletta, tira il filo e manda il pedale che mette in moto la ruota: la seconda bagna con la saliva il filo: la terza fa prillare il fuso e batte il dito sul tavolino, perchè ad ogni colpo cada una misura di filato a terra. E quale finissimo filato! Filavano le tre donne in silenzio senza mai cessare. Ogni volta che veniva la regina a vedere come progredisse il lavoro, la fanciulla le nascondeva ed essa non finiva dalle lodi alla brava ragazza, che in così poco tempo aveva già ammatassato tanto filo, fino come capelli. Quando fu vuota la prima stanza, le filatrici andarono nella seconda e poi nell’ultima, dopo di che salutata la ragazza se ne partirono rammentandole la promessa. — Se la manterrai, sarà la tua fortuna – furono le loro parole nell’uscire.
Come la ragazza ebbe mostrato alla regina le stanze sgombre di canapa e tutti quei bei mucchi di filato meraviglioso, furono subito fatte le nozze, ed il principe si rallegrò molto che gli toccasse in moglie una donna così operosa, di cui fece a tutta la corte elogi sperticati. La fanciulla non s’era dimenticata delle sue salvatrici e, chiestone il permesso al fidanzato, aveva mandato loro un invito per la festa e per il banchetto nuziale. Infatti comparvero le tre bizzarre femmine tutte agghindate, facendo inchini, la sposa fu loro incontro abbracciandole e chiamandole care cugine e subito lo sposo ebbe su loro lo sguardo curioso e disse alla sposa: — Cara mia, tu hai per cugine le tre zitellone più buffe che ci sia nel mondo! Da dove sono sbucate fuori? – e rivolto poi ad ognuna di esse le richiese delle strane deformità, ridendosene sotto i baffi. — Signorina, mi vorreste dire come mai avete questo piede così largo e schiacciato? – diceva alla prima. — È stato il pedale, è stato il pedale! – rispondeva essa lesta lesta e s’inchinava. — Signorina, mi direste come mai avete questo labbro così grosso e sporgente? – domandava alla seconda. — Per bagnare il filo, per bagnare il filo! – l’altra rispondeva lesta lesta e s’inchinava. — Signorina, potrei sapere come mai avete questo pollice così grande? – chiedeva all’ultima. — Dal prillare il fuso, dal prillare il fuso! – diceva quella e s’inchinava.
Il principe si spaventò nell’udire come quelle mostruosità fossero conseguenza del lungo filare e corso dalla giovine sposa: — Bella mia – le disse – non toccar più un filatoio sai! Guardatene bene! Così la fanciulla pigra fu per sempre liberata dalla grande tortura del filare.
Le due sorelle
da “Fiabe piemontesi”, raccolte da Maria Luisa Rivetti, Donzelli, 2002)
C’era una donna che aveva due figlie: una lavorava e l’altra non ne aveva voglia. La ragazza più vecchia al mattino si alza va presto, faceva tutti i lavori, andava in pastura, si portava dietro la tela e poi filava, arrivata a casa aiutava sua mamma. L’al tra figlia faceva la pelandrona e di lavorare non ne aveva voglia.
Poi sono venute alte e dovevano maritarsi. I ragazzi volevano la più vecchia perché lavorava ed era in gamba, ma la madre voleva che si maritasse anche l’altra: «Se si sposa prima quella lì poi l’altra non si sposa più. Quando troverà anche lei qualcuno che la sposa facciamo le nozze insieme». Allora hanno trovato un moroso anche a quella lì e hanno combinato le nozze a tutte e due nello stesso giorno. Quando sono state sposate la madre ha detto alle ragazze: «Adesso vi siete sposate tutte e due: una in un paese e l’altra in un altro; tra un anno e un giorno vi vengo a trovare e voglio vedere tre cose: la sciacquatura dei piatti, la spazzatura della casa e gli avanzi di filo tolti dai fusi» (perché una volta bisognava filare perché le robe già fatte non c’erano).
Dopo un anno quelle ragazze, specialmente quella che non aveva voglia di lavorare, aspettavano che la mamma andasse a vedere la sciacquatura dei piatti, la spazzatura della casa e gli avanzi di filo tolti dai fusi. La donna, quando è arrivata, è andata prima da quella lì che non aveva tanta voglia di lavorare. “Oh mamma! Sei venuta?”. “Sì, dopo un anno e un giorno sono venuta!”. La figlia le ha detto: ”Guarda mamma di spazzatura quanta ne ho!”. Dietro l’uscio ce n’era un mucchio: dappertutto ce n’era! La madre ha guardato e non ha parlato.
Dopo la ragazza le fa: “Mamma, vieni a vedere la sciacquatura dei piatti!”. L’ha portata in cantina, c’erano delle botti e non avevano più pigiato l’uva: erano tutte piene di sciacquatura dei piatti! Sia in casa che in cantina c’era un odore che non si poteva resistere. La madre è stata zitta. «Neh che ce n’è tanta, mamma?». «Sì sì, ce n’è!».
«Adesso vieni a vedere la pulitura dei fusi» e l’ha portata di sopra. Ha aperto due cassetti della guardaroba e erano pieni di avanzi di filo! «Mi ha anche aiutata mio marito, abbiamo le dita pelate a forza di raschiare i fusi. Neh che ce n’è tanto, mamma?». «Sì sì, adesso vatti a lavare e pettinare, ti metti la veste nuova e poi andiamo a trovare tua sorella».
Quella là le aspettava, quando le ha viste arrivare è uscita fuori tutta ben messa. «Oh mamma! Stavolta sei venuta a trovarmi!». «Ho mantenuto la promessa». Sono entrate in casa, lei aveva il desinare pronto, hanno mangiato e poi la ragazza fa: «Sa, venite a vedere gli avanzi dei fusi». Arrivati di sopra, ha aperto la guardaroba e là c’era una torre di lenzuola di tela. «Mamma, qui ci sono gli avanzi dei fusi!». L’altra figlia stava lì e la madre: «Hai visto? Tu invece di filare e fare le lenzuola sei andata a raschiare i fusi con il coltello, ti sei spelacchiata le mani e non hai più le lenzuola da mettere nel letto!». «Ebbene, perché non me l’hai detto?». «Io non ho detto niente a nessuno, tu non avevi voglia di lavorare e lei invece sapeva filare!».
«Adesso mamma vieni, andiamo a vedere la sciacquatura dei piatti». Loro sono andati già a basso e là, nella stalla, c’era un maialino grasso che non si poteva più muovere. La ragazza dice: «Mamma, queste sono le sciacquature dei piatti!» (perché una volta a lavare i piatti non mettevano la polvere e con quell’acqua lì, aggiungendo la crusca, facevano il pastone per i maiali). Quella lì aveva un bel maiale da vendere e l’altra aveva le botti mezze ammuffite e marce.
Poi la ragazza fa: «Adesso vieni, andiamo a vedere la spazzatura della casa» e ha portato la madre nell’orto. Lei la spazzatura della casa l’aveva messa in un cantone, aveva fatto il letame, poi l’aveva portato nell’orto e aveva seminato le carote, gli spinaci, i fagioli: aveva di tutto in quell’orto! «Brava, ti faccio i miei elogi!» le ha detto sua madre.
L’altra figlia piangeva: «Perché non mi hai detto niente!». «Perché io volevo farti lavorare ma tu non ne avevi voglia, adesso vai a casa e ti metti lì a fare della tela, che abbiate delle lenzuola da cambiarvi il letto! Ti comperi un maialino e con la sciacquatura dei piatti lo fai diventare grosso, poi con la spazzatura della casa fai il letame e lo metti nell’orto!». «Oh, ma se me lo avessi detto prima!». «Io non ho detto niente né all’una né all’altra, ma chi lavora raccoglie i frutti».
La filatrice pigra
Jakob e Wilhelm Grimm
In un villaggio vivevano due sposi, e la donna era così pigra che non aveva mai voglia di lavorare, e quel che il marito le dava da filare, non lo finiva mai, e se anche lo filava, non lo passava all’aspo, ma lasciava tutto quanto avvolto sul rocchetto.
Un giorno che il marito la rimproverava, ella lo rimbeccò dicendo: -Come faccio ad annaspare se non ho aspo? Va’ nel bosco e fammene uno. -Se è tutto qui- disse l’uomo -andrò nel bosco e prenderò il legno per fare l’aspo. Allora la donna temette che, trovato il legno, ne facesse un aspo, ed ella fosse poi costretta ad annaspare e a filare di nuovo. Rifletté‚ un poco e le venne in mente una bella idea: corse di nascosto dietro al marito, e quando egli si fu arrampicato su di un albero per scegliere e tagliare il legno, si acquattò in un cespuglio, dove il marito non poteva vederla, e gridò: – A tagliar legna per aspo, si muore; chi se ne serve è preso da malore. L’uomo tese l’orecchio, posò un attimo la scure e stette a pensare che cosa ciò potesse voler dire. -Mah- disse infine -cosa vuoi che sia stato! Ti hanno fischiato le orecchie, è inutile spaventarsi!
Prese di nuovo la scure e stava per menare il colpo, quando da sotto gridarono di nuovo: – A tagliar legna per aspo, si muore; chi se ne serve è preso da malore. Egli si fermò, ebbe una gran paura e si mise a rimuginare. Ma dopo un po’ tornò a farsi coraggio, afferrò la scure per la terza volta e fece per menare il colpo. Ma per la terza volta si senti gridar forte: – A tagliar legna per aspo, si muore; chi se ne serve è preso da malore. Allora egli ne ebbe abbastanza, tutta la voglia gli era passata; scese in fretta dall’albero e s’incamminò verso casa. La moglie corse più veloce che poté per un altro sentiero, per arrivare a casa prima di lui. E quando egli entrò nella stanza, disse, con un aria innocente come se niente fosse: – Be’, mi hai portato del buon legno per l’aspo?. -No- rispose egli – ho capito che annaspare non va bene. Le raccontò quel che gli era successo nel bosco e, da quel giorno in poi, la lasciò in pace con l’aspo.
Ben presto, però, l’uomo prese a seccarsi del disordine che c’era in casa. -Moglie- disse -è una vergogna che quel filato rimanga sul rocchetto. -Sai?- diss’ella. -Dato che non riusciamo ad avere un aspo, mettiti in solaio, e io starò sotto: ti butterò su il rocchetto e tu lo butterai giù: così faremo la matassa. -Sì, va bene- rispose il marito. Così fecero e, quand’ebbero finito, egli disse: – Adesso che la matassa è fatta, bisogna anche farla cuocere. La donna ebbe di nuovo timore ma disse: -Sì, la faremo bollire domattina presto- e pensava intanto a un’altra astuzia.
Si alzò di buon mattino, accese il fuoco, appese il paiolo, ma al posto del filo ci mise dentro un mucchio di stoppa e lo fece bollire. Poi andò dal marito, che era ancora a letto, e gli disse: -Io devo uscire, tu nel frattempo alzati e cura il filo che è sul fuoco, nel paiolo; ma devi farlo per tempo, fa’ attenzione: se il gallo canta e tu non ci badi, il filo diventa stoppa. L’uomo non perse tempo, si alzò in fretta e andò in cucina. Ma quando si avvicinò al paiolo e vi guardò dentro, non vide altro che un mucchio di stoppa. Allora se ne stette ben zitto senza fiatare, pensando di essersi sbagliato e che la colpa fosse sua, e da allora in poi non parlò più di filo né di filare alla moglie, che ne fu ben felice.
La fola di Ziricochel
Raccolta da Carolina Coronedi Berti. Traduzione dal dialetto bolognese
C’era una volta un mercante che aveva tre figlie. Capitò che questo mercante doveva andare a una fiera e disse alle figlie che gli dicessero cosa desideravano prima che andasse via, perché voleva farle contente. Queste ragazze ci pensarono e gli dissero che volevano dell’oro, dell’argento e della seta da filare. Il padre portò loro tutto questo e poi partì raccomandandosi che si comportassero bene.
Bisogna sapere che la minore di queste ragazze, di nome Ziricochel, era una bellezza; le sorelle le portavano un’invidia che non vi saprei dire. Dunque, quando il loro padre fu partito, la seta da filare la diedero a Ziricochel, la maggiore si tenne l’oro e la mezzana l’argento. Dopo il desinare si misero ciascuna davanti a una finestra per filare e tutti i passanti guardavano all’insù e fissavano la sorella minore. Verso sera passò la Luna, che guardò le finestre e disse: “Quella che fila l’oro è bella, quella dell’argento è più bella, ma quella della seta le supera tutte. Buonanotte, belle putte”.
Nel sentir questo, le sorelle ebbero a crepare di rabbia e dissero che avrebbero cambiato filo. Il giorno successivo, dopo pranzo, assegnarono alla minore l’argento e si misero a filare alla finestra. Ebbene, verso sera sopraggiunse la Luna e commentò: “Quella dell’oro è bella, quella della seta è più bella, ma quella dell’argento le supera tutte. Buonanotte, belle putte”. Vi potete immaginare come crebbe la rabbia alle sorelle, e facevano tutti i dispetti possibili a Ziricochel, che era tanto buona, poverina, che sopportava tutti gli scherzi che le facevano.
Un altro giorno, dopo pranzo, le diedero da filare l’oro e la fecero accostare ad un’altra finestra. Ebbene, verso sera passò la Luna e ripeté le solite parole: “Quella che fila l’argento è bella, quella della seta è più bella, ma quella dell’oro le supera tutte. Buona notte, belle putte”. Le sorelle non poterono più trattenersi, presero la povera Ziricochel e la rinchiusero in uno stanzino su nel granaio. La povera ragazza piangeva quando arrivò la Luna, che la liberò e la condusse nella sua dimora.
Nel dopo pranzo, ecco che le sorelle si rimettono alla finestra. Passa la Luna e dice: “Quella che fila l’oro è bella, quella dell’argento è più bella, ma quella che è a casa mia le supera tutte. Buona notte, belle putte”. Quando le sorelle sentirono così, corsero a vedere nello stanzino, e difatti scoprirono che Ziricochel non c’era più. Cosa fecero allora? Mandarono a chiamare una strologa, che fornisse loro notizie della sorella. Questa donna disse loro che era in casa della Luna e stava benissimo. “Ora come si potrebbe fare per farla morire?”, dissero le sorelle. “Che lascino fare a me, che farò quel che posso per accontentarle!”. Così la strega si travestì da merciaia ambulante e cominciò a passare sotto le finestre della Luna, urlando tutto quello che aveva da vendere. Ziricochel, che era in casa da sola, si fece alla finestra e la strologa si volse in alto e le disse: “Vuole di questi bei spilloni? Glieli do per poco”. Era proprio ciò che piaceva a Ziricochel, così fece entrare dalla porta la strega, prese uno spillone e se lo ficcò nei capelli, ma ce l’aveva appena piantato che diventò una statua. La strega scappò e andò a riferire alle sue sorelle com’era andata. Tornò a casa la Luna e vide la ragazza trasformata in statua. “Ah, cattiva! – cominciò a dire – mi hai disobbedito; te l’avevo detto di non aprire a nessuno”. In poche parole, si mosse a compassione, le estrasse lo spillone e Ziricochel tornò com’era prima. La Luna la rimproverò e la ragazza le promise che mai più l’avrebbe fatto.
Dopo un po’ di tempo ecco che alle sorelle viene voglia di sapere di Ziricochel, e mandano a prendere la solita strologa, che guarda nei suoi libracci e dice come va. Tornano a pregarla di farla morire. La strologa va sotto le finestre di Ziricochel con una cassetta di pettini che erano una bellezza e comincia a gridare. La ragazza si fa alla finestra, vede questi bei pettini e gliene viene voglia, tanto che chiama la strologa dentro casa. Ma ecco che ha appena messo in testa il pettine che diventa una statua, e via che scappa la strega delle sorelle. Torna a casa la Luna, entra ed ecco che trova Ziricochel fatta statua. Potete credere come s’inquietò la Luna, ma le voleva un così gran bene che, dopo che si fu sfogata, disse: “Basta, ti perdonerò anche per questa volta!”. Le tolse il pettine e la ragazza si riprese. Le disse poi che, se le disubbidiva un’altra volta, l’avrebbe lasciata morta.
Proseguirono in pace un po’ di tempo; ma intanto venne voglia alle sorelle di sapere come andava. Mandarono a chiamare la strologa che rivelò che la ragazza era viva e contenta, e loro pregano ancora la strologa di farla morire un’altra volta. Questa donnaccia vestì gli abiti da mercante e passò sotto le finestre della ragazza con le più belle camicie ricamate che si potessero ammirare. Ziricochel si fece alla finestra, vide queste belle camicie e disse: “Oh, se potessi averne una!”. E la strega gliele mostrava, insomma per farla breve, Ziricochel chiamò la strega dentro casa e si provò una camicia, ma appena l’ebbe indossata diventò una statua. Rincasò la Luna e si infuriò tanto che non volle più saperne di resuscitarla. Prese la statua, la caricò sul dorso di un somarino e la vendette per tre centesimi ad uno spazzacamino. Quest’uomo girava per la strada e trovò il figlio del re, che s’incantò a guardare quella bella statua e la comprò per una ingente somma di quattrini, poi la portò a palazzo e la depose sopra un comò nella sua stanza. Lui s’era poi tanto innamorato della statua che passava i giorni interi a parlarle, e stava lì ad adorarla; quando andava fuori chiudeva a chiave la porta della stanza, perché nessuno la vedesse.
Le sorelle del re dovevano andare a una festa da ballo e volevano farsi una camicia ricamata come quella della statua; pensarono di far fare una chiave falsa, per entrare quando il fratello era fuori. E così fecero, e quando il fratello era lontano entrarono per copiare il disegno del ricamo. Andarono dunque alla statua e le tolsero la camicia, ma appena l’ebbero levata Ziricochel tornò viva. Figuratevi che paura ebbero le sorelle! Ziricochel raccontò ogni cosa, dal principio alla fine. Allora le sorelle le suggerirono di appiattarsi dietro un uscio, aspettando che il re tornasse, e che si rivelasse quando lo credeva opportuno.
Così fece; tornò il re e non vedendo più la statua cominciò a disperarsi, ma Ziricochel, quando vide ciò, saltò fuori e gli raccontò ogni cosa. Il re la condusse davanti ai suoi genitori dicendo: ”Questa è la mia sposa”, e in poco tempo si fecero le nozze, che durarono tre giorni. Le sorelle, che sapevano la notizia per mezzo della strologa, morirono entrambe dalla passione, mentre Ziricochel fu sempre felice. Dunque si vede che chi fa del male presto o tardi la paga.
La filatrice
da Saghe e leggende delle Alpi, a cura di T.Gatto Chanu
La mendicante levò lo sguardo inquieto verso occidente, per misurare l’ora. Il sole era calato ormai da un pezzo ed un tenue chiarore bordava all’orizzonte il crinale dei monti, mentre le ombre della sera si allungavano nella vallata: e Ussel era ancora lontano.
Con un brivido, la donna si strinse nello scialle, affrettando il passo. Era stata una buona giornata, la sua. Ma la gerla greve delle offerte raccolte le pesava sulle spalle, e i piedi le dolevano per il lungo cammino. Poi si levò il vento. Dapprima una brezza frizzante che scuoteva appena le fronde; poi raffiche sempre più violente, che spazzavano dai rami le ultime foglie di quell’autunno inoltrato.
Sostando a riprendere lena, la poveretta si rammaricò di non essersi fermata a Saint-Germain, dove qualcuno certo le avrebbe dato ospitalità per la notte; si era allontanata troppo dal paese per tornare indietro. Cercò di ricordare se non ci fosse qualche rifugio lungo il cammino, perché vedeva con sgomento calare rapida la notte. Ma nel castagneto che portava al Ponte delle Capre rammentava soltanto l’ammasso di rovine dello Chéseau de Bouvoz.
Riprese il cammino con un gesto di sconforto. La notte ormai riempiva di ombre paurose il bosco, ove il sentiero era segnato appena, a tratti, dal biancheggiare incerto di qualche sporgenza rocciosa.
Non c’era neppure la luna. Solo squarci di cielo trapuntati di stelle si aprivano tra le macchie nere dei castagni battuti dal vento.
Affrettò il passo, ansiosa. E tosto le sfuggì un grido soffocato: un tenue lume brillava attraverso la finestrella del casolare abbandonato, a metà coperta da un mucchio di pietre.
“Qualcuno è tornato ad abitarvi, anche se non l’ha ancora sistemato”, pensò sollevata, mentre raggiungeva la soglia, facendosi strada tra rovi ed ortiche. Bussò con il bastone all’uscio, e tosto la porta si aprì cigolando.
Una vecchietta vestita di nero, che teneva tra le mani una conocchia incappucciata da un candido pennecchio, con un quieto sorriso le indicò la panca presso il focolare.
“Finisco questo bioccolo”, disse, sedendole accanto; e prese a muovere svelta le dita a ritorcer la lana.
Il vento sembrava essersi calmato, e un silenzio al di fuori del tempo avvolgeva la casa.
Mentre aspettava che la donna finisse di filare, la mendicante si mise a parlare delle difficoltà incontrate per via. Ma poi, gettando un’occhiata alla rocca, si accorse stupita che il pennecchio non era diminuito affatto dal suo arrivo, per quanto fosse sicura che l’ospite non avesse aggiunto lana alla conocchia; e filava, filava, torcendo senza posa il filo tra il pollice e l’indice, per arrotolarlo sul fuso.
D’impulso, guardando il bioccolo che non si assottigliava, tese la mano a prendere la rocca: “Date qua, faccio io”.
“Ve ne sarò per sempre grata”, rispose la vecchia, porgendogliela col suo dolce sorriso.
Ma appena la mendicante pose mano all’opera, la terra fu scossa da un tremito, e tutto precipitò nel buio.
Mentre l’ultimo guizzo del fuoco si smorzava in un fremito di stelle, la donna si ritrovò seduta su un mucchio di pietre, tra cespugli spinosi, la gerla sulle spalle e le mani vuote, atteggiate nel gesto di chi fila.
Si rizzò di scatto, urlando, e prese a correre verso Ussel, senza volgersi indietro.
Nelle stalle ancora si vegliava, mentre le mucche ruminavano quiete.
La viandante bussò alla prima porta, e si afflosciò a terra, prima che qualcuno le venisse ad aprire. La sollevarono di peso e la portarono dentro, attribuendo il malore al freddo e agli stenti. Ma, poco dopo, pendevano tutti dalle sue labbra, ascoltando il racconto del suo viaggio.
“Che giorno è oggi?”, domandò il nonno, quand’ebbe finito.
“Venerdì”, gli rispose qualcuno.
Il vecchio si fece il segno della croce.
“E voi di venerdì siete passata dallo Chéseau de Bouvoz?! Benedetta! Solo una come voi poteva farlo”.
“Perché?”, domandò, stordita.
“Saranno duecent’anni e forse più che quella poveretta che avete incontrato tornava ogni venerdì in quella casa a filare la lana. Forse, mentre era in vita, l’aveva fatto quando non doveva. Magari nei giorni di festa. O a notte tarda, quando il fuoco è spento. Ora è chiaro che quello era il suo castigo. Aspettava che qualcuno si offrisse di aiutarla, ponendo così fine alla sua pena. Ma dovevate proprio capitare lì di passaggio voi, buona donna che non sapevate nulla: perché nessuno di qui sarebbe andato da quelle parti un venerdì dopo il tramonto. Sia gloria a Dio e pace ai nostri morti!”
“Così sia”, rispose un coro di voci sommesse.
La matassa fatata
da Saghe e leggende delle Alpi, a cura di T.Gatto Chanu
Molti anni fa viveva in Valdastico una povera vedova, che andava a lavorare qua e là, dove c’era bisogno di aiuto, ma stentava a mettere assieme il pranzo con la cena. Una volta che si trovava sotto al Lèrchovel, il languore del suo stomaco era tale che non se la sentiva più di camminare.
“Devo proprio fermarmi un momento”, pensò.
Si era appena appoggiata ad una roccia a lato del sentiero, quando avvertì nell’aria una fragranza come di pane appena sfornato.
“Magari potessi avere un tozzo da metter sotto i denti!”, le scappò detto. E subito una voce le rispose: “Maiale golosone, un po’ di pane
Oggi per te ancora mi rimane”.
La vedova si trovò tra le mani una pagnotta offertale da una strana creatura, comparsa accanto a lei all’improvviso, che immediatamente riconobbe come appartenente alla schiera delle Donnette Beate.
Non ne aveva mai vista una, fino a quel momento; ma sapeva che erano piccoline e gentili, e abitavano nelle caverne dei monti, che, quando non erano intente a filare, percorrevano instancabili, per raccogliere fiori, foglie e radici, da utilizzare come sapevano loro.
Quando erano stanche, chiamavano un orso, un cervo, una volpe, e si facevano ricondurre alla loro grotta. Si alzavano di buon’ora, al sorgere del sole, si affacciavano alla soglia e, battendo la mano su una ciotola, cantavano:
“O capriole che nei boschi state,
buone bestiole che libere andate
e alle Donne Beate care siete,
mungervi voglio e levarmi la sete”.
Subito le convocate accorrevano, porgendo docilmente le mammelle.
La viandante sapeva che le Donnette erano generose e volentieri aiutavano chi si trovava in difficoltà. Guardò la pagnotta che le era stata messa tra le mani, e avrebbe voluto ringraziare, ma la donatrice già si era dileguata nell’aria. Addentò il pane, felice, e proseguì il cammino. Ma dell’incontro non parlò con nessuno.
Passarono i giorni, e vennero le fredde piogge e gl’impietosi venti dell’autunno. La vedova andava dove avevano bisogno di una mano per raccogliere gli ultimi frutti; e rabbrividiva nel suo abito logoro e rappezzato. Una volta, ripassando sotto al Lèrchovel, vide stese per terra ad asciugare delle vesti di morbida lana.
“Potessi riscaldarmi anch’io con abiti come questi!”, si disse, accarezzandoli con gli occhi, senza osare toccarli. Subito le comparve davanti la Donnetta Beata da cui aveva avuto il pane, che, ponendole tra le mani una matassina di lana, le rivolse nuovamente la parola.
“Vermiciattolo nudo, in dono avrai
una matassa che dipanerai.
Piccola e pure grande come il mondo:
potresti anche non vederne il fondo.
Ma bada che nessuno mai
Se ne auguri la fine, o saran guai”.
La Donnetta Beata scomparve, senza aspettare di essere ringraziata; e la vedova tornò a casa, grata del regalo, di cui, per altro, non aveva compreso il valore.
“Mi farò un bel paio di calze”, pensava contenta, stendendo sull’arcolaio la matassa e cominciando a dipanare il filo. Ma aggiunse gomitolo a gomitolo, riempiendo una grande cesta: e ancora il dono era intatto, come quando l’aveva ricevuto. Ebbe lana per farsi una maglia, un vestito, una cuffia…
Le vicine incominciarono a chiacchierare: perché quello che adoperava era un filato particolare, che non si era mai visto da quelle parti. Candido come la neve, soffice come una piuma.
“Si può sapere dove l’avete preso?”
“E’ roba che da noi non si è mai usata”.
“Di dove viene?”
Tanto dissero e fecero che la buona donna raccontò ogni cosa, e la voce si sparse. Venivano anche dai paesi vicini, portando magari qualche manciata di legumi o altri piccoli regali, per vedere la matassa magica della Donnetta Beata, che non aveva mai fine.
“Che ne farete di tutta quella lana?”, domandavano.
“Ne darò anche a chi non ne ha”, rispondeva.
Qualcuna delle comari si disse disposta ad acquistarne, purché il prezzo fosse onesto. Così alla vedova le cose cominciarono ad andare proprio bene. Passava la maggior parte della giornata all’arcolaio, e a volte lavorava anche il filato, per vender capi già confezionati.
Ma c’era in paese qualche donna gelosa della fortuna che le era capitata. Un giorno, approfittando della sua uscita, una vicina si infilò quatta quatta in casa sua, e incominciò a dipanare svelta, per finire la matassa prima che tornasse. Ma, poiché non la vedeva assottigliarsi, presa dall’ansia di essere sorpresa, ingarbugliò la lana ed esclamò indispettita: “Maledetta, quando finirai?”
A quelle parole, gomitoli e matassa scomparvero ad un tratto, e la donna, spaventata, scappò via. Quando la vedova rincasò, si mise a piangere, accorgendosi che il guindolo era vuoto.
Ma la Donnetta Beata le comparve davanti e, passandole una carezza sui capelli, disse con voce gentile:
“Non avvilirti per quanto è accaduto:
rallegrati di quello che hai avuto.
Saran puniti un giorno gli invidiosi,
verran premiati i cuori generosi.
Dura è la vita per il montanaro:
tanta fatica, ma poco denaro.
Porta pazienza, ed il mio augurio sia
Di vivere in salute e allegria”.
Si dileguò all’improvviso, come le altre volte, lasciando però ai piedi della donna un sacco pieno di gomitoli di lana.
Il misterioso rapimento di una donna
Testimonianza raccolta nel 2001 da Enrica Vanni – Narratrice: Rosa Nuccini
Ai tempi d’una volta la gente andavano a veglia perché ora c’è la televisione e ciascuno sta in casa sua, ma allora ‘un c’era niente e poi le donne lavoravano la sera, ‘un è che potevano sta’ a guardare la televisione, eh! Allora filavano la canapa, seminavano la canapa e dopo la filavano per fare la biancheria. Questa donna dice che andava a veglia giù in fondo al paese, non lo so a casa di chi, comunque andava in fondo al paese, sotto la chiesa! La sera si pigliava una borsa, o quel che c’avrà avuto, ‘un lo so, per portare questa roba da filare, e la rocca e i fusi, e andava a casa di questa gente che c’era altre donne, filavano insieme per passare una serata così! Questa donna, quando arrivò l’ora che avrebbe dovuto tornare a casa, non tornava e insomma … quelli di casa dicevano: “Come mai che ‘un torna?!”; andiedero a cercarla in casa di questi amici dove ‘un era arrivata … e …allora dov’è andata, dove non è andata, insomma fu una nottata che la cercarono tutta la notte! Poi la mattina hanno trovato qualche cosa che han capito che questa donna era stata portata via da qualcuno! Chi diceva dal diavolo, chi diceva che l’avevano mangiata i lupi … trovarono i tozzi … dichiamo … la canapa, via, da filare per la strada sotto il campanile, giù di là, no?! Trovarono la rocca verso il Pianello là in una selva che era per in là! Però sparì questa donna che non si sa chi l’ha portata via, se è stata portata via dal diavolo o da una bestia … insomma rimase una cosa paurosa perché … dicevano che doveva essere stata portata via dal diavolo più che dalle bestie perché non han trovato altro, non han trovato nient’altro di lei! Né zoccoli che aveva in piede, né altro, né vestiti, nulla! Han trovato solo che questa canapa, questa rocca per in là e questa canapa sempre da filare … e basta! E dopo è rimasto che dicevano: “Quella donna che ha portato via il diavolo al campanile!”, sarà una scemenza però è rimasta che ogni tanto … ora no perché i ragazzi non lo sanno neanche, non c’è nessuno che si interessa, invece una volta le contavan queste cose qui … per esempio al tempo delle castagne c’erano i metati e andavano lì la sera, tutti e c’eran quei più vecchi che contavan le novelle, perché ne contavan tante di novelle, oppure contavan le paure!