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Storielle massesi d’identità

di Alberto Borghini

Per ogni processo (…) si è (…) condotti a distinguere due tipi di regioni; le regioni ove il processo è ben determinato e strutturalmente stabile e le zone di instabilità o di indeterminazione. Così, si introducono i modelli semantici (…). Thom, Stabilità strutturale…, p. 137 (dal cap. Dinamica delle forme)

Focalizziamo l’attenzione su un raccontino dalla struttura sintattico – narrativa assai semplice, registrato a Forno di Massa e pubblicato sotto il titolo di Battì caduto dall’altana.(1) L’area tematico-folklorica di appartenenza è, di tutta evidenza, quella dello sciocco, o, più specificatamente, dei due fratelli sciocchi che restano reciprocamente ingannati – si ingannano a vicenda e persino si auto ingannano – secondo un gioco di circolarità, un meccanismo di circolo vizioso sempre più iperbolicamente assurdo (in crescendo). Il limite di approssimazione sarà costituito da un più o meno totale disorientamento, di dubbio estremo a proposito addirittura di quella che chiamerei cardinalità fisica della persona (dell’io): ciò in seguito, per lo più, ad un evento banale di cui essi sono vittima. Ma quel che è singolare è proprio il fatto che in queste vicende di sciocchi (e di sciocchi al duale per così esprimerci) il meccanismo del circolo vizioso manifesta spesso una sua autonomia dinamica interna: si riproduce – secondo effetti di climax – per una sorta di legge endogenetica, rispetto alla quale l’evento iniziale si configura alla stregua di uno spunto sempre più ‘lontano’. L’evento iniziale sarà, cioè, un puro e semplice evento di innesco che poi segue l’“autonomia” di un suo percorso (in quanto percorso significante). Adottando una prospettiva di derivazione kantiana, direi che un dinamismo endogenetico così concepito è trascendentale alla vicenda narrativa e alla successione dei significanti che essa effettivamente pone in atto; si tratta in altre parole di autonomia trascendentale (2) – volta a volta qualitativamente (geometricamente) saliente – della legge di svolgimento endogenetico del significanti nel corso della narrazione. Sarà dunque con un certo tipo modale di autonomia trascendentale della legge (endogenetica) di svolgimento narrativo che viene semioticamente a coincidere la funzione linguistico – folklorica (culturologica) dello sciocco.

Tralasciamo per il momento una siffatta prospettiva, di ordine eminentemente teorico e troppo generale.

Comunque sia, tornando al raccontino di Forno, osserveremo in via preliminare che ci troviamo di fronte a un evento accidentale,  in quanto evento di innesco della vicenda, che si tramuta endogeneticamente (secondo per l’appunto il tipo modale di autonomia trascendentale propria dello sciocco come funzione linguistico- culturologica) in una vicenda di inconsapevole  inganno e reciproco disorientamento fino a toccare il problema della identità/identificabilità  (relativamente ad uno dei due fratelli) (3). Per tale via si allude – quantomeno – alla vasta e complessa tematica del sosia: più esattamente, del falso sosia. Notevole il fatto che il raccontino di Forno sembrerebbe per molti versi avvicinabile alla prima parte di una celebre novella del Boccaccio, quella di Andreuccio da Perugia (Decam. II 5). E tuttavia, pur nella sua semplicità quasi scheletrica, questo raccontino popolare parrebbe andare oltre se non decisamente oltre, per quanto concerne appunto il tema della identi(ficabili)tà: la sua conclusione, un po’ ex abrupto, è infatti in grado di suggerirci meccanismi che ci riportano – attraverso gli adeguati collegamenti con un ben determinato filone folklorico –  a problematiche assai “profonde” di una psico-logica  elementare, riguardanti il modo di strutturarsi della identità/identificabilità, la possibilità” di emergenza del sosia (del tipo di sosia), la cosiddetta intermetamorfosi etc.(4).

Ma procediamo con ordine e riproduciamo, per comodità del lettore, il raccontino di Forno:

“Questa storia che adesso vi raccontiamo è veramente successa al nostro paese circa cento anni fa.

Dovete sapere che a quei tempi quasi tutte le case erano formate da due o tre stanze, una sopra l’altra, che comunicavano fra loro con delle scalette di legno. Anche i pavimenti erano fatti con le tavole.

Pochissime case, poi, avevano il gabinetto e, dove c’era, di solito era costruito esternamente, su un piccolo terrazzino (l’altana). Anche la casa di Battì più o meno era fatta così. Ed ora sentite che cosa capitò, una notte, a Battì, che si era svegliato di soprassalto perché aveva un bisogno urgente… Il giovane andò di corsa nell’altana, ma una delle tavole di legno, che formavano il pavimento, si spaccò; Battì cadde di sotto e finì nel bel mezzo della piana di fagioli. Per fortuna, non si era fatto niente di male.

Battì, ancora mezzo addormentato, andò a bussare alla porta di casa sua. Bussa e bussa, finalmente un fratello si svegliò e, senza aprire l’uscio, disse: “Ma chi è che bussa a quest’ora?”. “Sono io, sono Battì”, rispose l’altro.

E il fratello: “Non è vero, non sei Battì! Battì è nel suo letto che dorme!”.

E il povero Battì continuava a ripetere al fratello di aprirgli, dicendogli di essere caduto sulla piana di fagioli, ma l’altro non gli credeva.

Alla fine Battì gli disse: “Ma insomma se non ci credi che io sono Battì, vai a vedere nella camera.  Se a letto non ci sono, vuol dire che io sono proprio Battì, se invece sono a letto, allora non lo so nemmeno io chi sono io! ! ! . . .””. (5)

Veniamo ora a un più sistematico confronto con la novella di Andreuccio da Perugia. La narrazione sembra costituirsi di episodi che si connettono bensì l’uno all’altro, ma che al contempo risultano abbastanza nettamente distinguibili, quasi isolabili l’uno rispetto all’altro (a parte le valenze meccanismi e/o significanti di rinvio – che servono a ricollegare le parti). La prima parte della novella, quella che ci interessa, riguarda – come è noto – l’incontro del giovane Andreuccio, recatosi a Napoli per mercanteggiare, con la bella siciliana che lo inganna facendosi passare per sua sorellastra.  (6)

Più in particolare, nell’ambito della prima parte (o primo episodio), una certa sequenza quella che il Battì caduto dall’altana può in qualche modo ricordare. E ad ogni buon conto, occorre rimarcare che molti tratti del contesto situazionale appaiono del tutto divergenti: sì che le modalità di orientamento delle due vicende, in rapporto alla problematica dell’identità /identificabilità, risultano diametralmente opposte; o, più ancora, neppure confrontabili. Da tale punto di vista, lo schema più ‘normale’ è indubbiamente quello della novella di Andreuccio, dove si tratta di un puro e semplice inganno che il giovane mercante perugino, una volta gabbato, riconosce senza mettere in forse la sostanza della sua identità.

In questa sede interessa mettere in risalto il “motivo analogico” che accomuna le due narrazioni: “motivo analogico” che per l’appunto si espande, configurandosi come vera e propria unità di sequenza (si tratta di concettualità che andrebbero, comunque, meglio precisate).

Se la ‘comune’ unità di sequenza è dunque realizzata in maniera elementare nel raccontino di Forno, d’altro lato v’è da rilevare che la sua stessa semplicità narrativa può essere nient’altro che l’emergenza schematica di articolazioni significanti ovverosia di connessioni paradigmatiche (nonché sintattiche) di una certa complessità. A sua volta tale complessità resta in larga (larghissima?) parte sottintesa al livello di un solo testo narrativo, essendo di natura ‘intertestuale’: in quanto cioè percorre, per sua natura, infiniti testi.

In prospettiva teorica, risulterà opportuno giustapporre quella che è la  schematicità  (anche geometrico –  dimensionale?) delle effettive realizzazioni significanti – quali si vanno fenomenologicamente  attuando sul piano del discorso narrativo – a quella che è  invece la infinita multidirezionalità del ‘divenire’/’avvenire’ morfogenetico (morfo-logico) del  significante, in quanto potenzialità necessarie (creodo narrativo),  al di là e al di sotto delle effettualità narrative medesime (piano cosiddetto logico reale). Al contrario, nell’idea di creodo (svolgimento potenziale e necessario di un significante che investe l’”universalità” semiotica in divenire (7) della lingua/cultura) interviene la infinibilità – l’infinito e l’infinitesimale al contempo – del piano che altrove ho chiamato logico-immaginario (8).

Orbene, nel racconto di Andreuccio l’articolazione “superficiale” del discorso è assai più ricca ed elaborata, trattandosi del resto di alta letteratura, rispetto ad un raccontino popolare quale – del tipo di – Battì caduto dall’altana. Tuttavia, se adottiamo come lunghezza d’onda la tematica della identità/identificabilità, se al tempo stesso cerchiamo di avvicinarci ad un punto di vista creodico (ciò che parrebbe comportare il confronto fra la narrazione effettiva in quanto piano logico-reale e il campo infinibilmente potenziale e necessario della narrabilità in quanto logico-immaginario), non vi è dubbio che il racconto del Decamerone risulta piuttosto ovvio – lo abbiamo già rimarcato -, privo di rotture per così dire catastrofiche: esso si muove e si articola (letterariamente) restando all’interno di una zona di attese in fin dei conti abbastanza “normale”, la cosiddetta zona di supporto del creodo. Non si determina cioè effetto di biforcazione (narrativa) sul piano logico-reale (sul piano del racconto effettivo quantomeno – lo ripeto – sulla lunghezza d’onda della identità/identificabilità); non si determina passaggio (catastrofco) verso la cosiddetta zona ombelicale del creodo. Tale passaggio si avrà, nel caso in questione, con la perdita o la messa in dubbio della identità/identificabilità fra “personaggi” legati da parentela, familiarità etc. (così per es. il raccontino di Forno).

Pur rinviando alla diretta (ri-)lettura della novella di Andreuccio, cerchiamo per comodità del lettore di focalizzare il nucleo di somiglianza (in quanto nucleo di condensazione significante) che ci suggerisce appunto di accostare il raccontino di Forno alla prima parte (o primo episodio) della novella di Andreuccio.

Per converso, tale accostamento può – naturalmente – valere quale riscontro tematico per la novella del Decamerone (relativamente alla sua prima parte).

Cadendo dunque nell’inganno della bella siciliana di facili costumi, che gli ha fatto credere di essere sua sorella (nonché di essere una onesta nobildonna, fedele al marito etc.), Andreuccio accetta di trattenersi a cena da lei; quindi, essendosi fatta ora tarda (sempre per l’abilità ingannatrice della donna), di pernottare nell’abitazione di lei, causa la pericolosità notturna di Napoli. Ed ecco quel che avviene:

“[…] ella, lasciato Andreuccio a dormir nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse nulla, con le sue femmine in un’altra camera se n’andò.

Era il caldo grande; per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimaso, subitamente si spogliò in farsetto, e trassesi i panni di gamba, e al capo del letto gli si pose; e richiedendo il naturale uso di dover diporre il superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell’uno de’ canti della camera gli mostrò un uscio, e disse:

– Andate là entro. –

Andreuccio, dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale, dalla contrapposta parte sconfitta era dal travicello sopra il quale era per lo qual caso capolevando questa tavola, con lui insieme se n’andò quindi giuso; e di tanto l’amò Iddio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto; ma tutto nella bruttura, della quale il luogo era pieno, s’imbrattò.

[…]

Ritrovandosi adunque là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, cominciò a chiamare il fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l’ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna: la quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni v’erano; e trovati i panni e con essi i denari, … più di lui non curandosi, prestamente andò a chiuder l’uscio del quale egli era uscito quando cadde”.

Quindi Andreuccio, nonostante le sue insistenze e nonostante le proteste di essere il fratello di madonna Fiordaliso, non viene più “riconosciuto”, né dalla “sorella” né da alcun’altra persona della casa:

“Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare; ma ciò era niente. Per che egli, già sospettando, e tardi dello inganno cominciandosi ad accorgere, salito sopra un muretto che quel chiassolino dalla strada chiudeva, e nella via disceso, all’uscio della casa, il quale egli molto ben conobbe, se n’andò; e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò e percosse. Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua disavventura, cominciò a dire:

–  Ohimè lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini, e una sorella! –

E dopo molte altre parole, da capo cominciò a batter l’uscio e a gridare; e tanto fece così, che molti de’ circustanti vicini desti, non potendo la noia sofferire, si levarono; e una delle servigiali della donna, in vista tutta sonnocchiosa, fattasi alla finestra, proverbiosamente disse:

– Chi picchia là giù?

– Oh, – disse Andreuccio – o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di

madonna Fiordaliso. –

Al quale ella rispuose:

– Buono uomo, se tu hai troppo bevuto (9), va dormi, e tornerai domattina: io non

so che Andreuccio né che ciance son quelle che tu di’; va in buona ora, e lasciaci

dormire, se ti piace.

– Come! – disse Andreuccio – non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così

fatti i parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine si dimentichino, rendimi almeno i

panni miei, li quali lasciati v’ho, e io m’andrò volentieri con Dio. –

Al quale ella, quasi ridendo, disse:

– Buono uomo, è mi par che tu sogni -; e il dir questo, e il tornarsi dentro, e chiuder la

finestra, fu una cosa. […]”.

Ad un livello di sufficiente generalizzazione – sufficiente cioè a raccordare il raccontino di Forno con questa sequenza della novella di Andreuccio – possiamo così formulare il “motivo analogico” di collegamento: “un congiunto (o falso congiunto, qualcuno cui si fa credere di essere un congiunto) si trova d’improvviso espulso dallo spazio domestico (o “parentale” che dir si voglia) mentre si accinge ad espletare un bisogno corporale, e non viene più riconosciuto dal proprio familiare (o falso familiare)”.

Riassumendo, ciò che nel confronto fra i due racconti risulta debordante da una parte o dall’altra – rispetto alla formulazione, peraltro approssimativa, qui sopra proposta – è per un verso quella che chiamerei catastrofe di identità/identificabilità, che genera in sovrappiù una catastrofe di autoidentità, quale effetto catastrofico di secondo grado (il personaggio di Battì finisce persino col prospettare la messa in forse della sua stessa autoidentità/autoidentificabilità); tutto questo in assenza di un qualsivoglia gioco di inganno (il che parrebbe rendere ancor più “forte” il cumulo degli effetti catastrofici, in rapida successione, dell’identità e dell’autoidentità). Ciò che per un altro verso (novella di Andreuccio) è debordante – rispetto al raccontino popolare e alla formulazione sopra proposta – sarà per l’appunto il gioco di inganno del tutto consapevole in quanto non determina catastrofe di identità, e tantomeno di autoidentità. La consapevolezza della propria identità/identificabilità, come di quella altrui, resta perfettamente integra lungo lo svolgimento del racconto; ovverosia, lo svolgimento creodico dei significanti non esce – da tale punto di vista – da una zona in qualche modo “normalmente” prevedibile.

Del tutto simile al racconto del Boccaccio è una novella registrata durante il secolo scorso a Montale Pistoiese (10), in cui la bella siciliana “sorella” di Andreuccio è sostituita da “du’ bellissime ragazze”, questa volte “cugine” dell’eroe, che è il giovane Paolino venuto (anch’egli col ruolo di mercante) alla fiera di paese dalla vicina Perugia, allo scopo di acquistare una cavalla. Compare anche la figura della vecchia, che sarebbe in questo caso “zia” dell’ingenuo Paolino da Perugia. Anche il decorso narrativo ricalca molto da presso – ivi compresi diversi particolari – l’”andatura evenemenziale” (per così dire) della novella di Andreuccio: ritroviamo il motivo dell’espulsione dallo spazio domestico (-“parentale”) attraverso la “bodola spalancata” del “licit”, sì che il giovane “capitombolò nel mezzo al bottino ‘n fondo dell’orto quanto lui era lungo”; ritroviamo quindi il motivo del non riconoscimento da parte di (delle) falsi (-e) parenti (11).

Dal momento che si tratta di un possibile calco – quantomeno in larga parte – della novella di Andreuccio, il racconto montalese non ci dice niente di nuovo, per quel che concerne il problema dell’identità/identificabilità, rispetto al racconto del Decamerone. La sola cosa che val, forse, la pena di sottolineare è per l’appunto l’”indebolimento” della relazione di falsa parentela (e – diciamo – di falsa “alterità”): il che rende “stilisticamente” meno densi tanto il falso riconoscimento quanto il successivo non (più) riconoscimento del falso parente.

Torniamo di nuovo al raccontino di Forno per segnalare – infine – che il dubbio circa la propria identità, insorto nel “protagonista” Battì, non fa che seguire il dubbio – anzi la “certezza” circa la estraneità dello stesso protagonista – immediatamente prima espresso, e con tutta probabilità decisamente e reiteratamente, dal familiare (etc.) del protagonista-’eroe’ del racconto: da colui che ne rappresenta l’alter, nel caso in oggetto un fratello. Sembrerebbe cioè trattarsi di un meccanismo piuttosto generale, quello per cui la ipoidentificazione di se stessi si svolgerebbe – ciò che accade non di rado – secondo un meccanismo dialogico: la ipoidentificazione di sé sarebbe insomma suggerita o imposta da un personaggio in posizione di alter. L’alter non riconosce – involontariamente o volontariamente – il personaggio-’eroe’, e quest’ultimo comincia a nutrire dubbi sulla propria identità. Siamo di fronte ad un procedimento che si costituisce come tipo.

Il meccanismo dialogico parrebbe corrispondere al ‘doppio trapasso’ che va dalla catastrofe d’identità/identificabilità (il dubbio circa l’estraneità del personaggio-“eroe” espresso dal suo alter) alla catastrofe cosiddetta di autoidentità/autoidentificabilità, che alla fine del racconto investe l’ego del personaggio-’eroe’.

E’ una doppia questione che appare (la seconda nomogeneticamente reagendo sulla prima) nel racconto di Battì caduto dall’altana, che in tal modo si allontana doppiamente (con un doppio effetto di scarto, il secondo generato endogeneticamente dal primo e molto più ‘potente’ del primo) dalla cosiddetta normalità liguistico-culturale. Se, come abbiam visto, la prima questione riguarda il fatto che qualcun altro – addirittura uno stretto familiare – afferma che io non sono io, una seconda questione, più “forte”, interviene tramite il fatto che qualcuno (addirittura un familiare) dice o semplicemente potrebbe dire che io sono già altrove: in part., nello spazio domestico-parentale dell’io, in quello che è il ‘sito’ più ‘normale’, più usuale e/o codificato, dell’io in oggetto. E’ a tal punto e su tale base che si determina in effetti la seconda, iperbolica, deviazione dalla ‘normalità’: se io non sono (più) io dal momento che io (/colui che io ero) sono (/è) altrove, allora neppur io so più chi sono.

In sostanza, proprio la deviazione dalla ‘normalità’ del sito che caratterizza o ‘dovrebbe’ caratterizzare l’io sembrerebbe diventare decisiva; è questa sorta di deviazione topo-logica dalla ‘normalità’ – dalla normalità del sito come forma di alter – che risulterà in grado di innescare quella che è (o potrebbe essere) la catastrofe di autoidenti(ficabili)tà. Oramai rassegnato, concludeva il povero Battì rivolto al fratello: “(…) vai a vedere nella camera. Se a letto non ci sono, vuol dire che io sono proprio Battì, se invece sono a letto, allora non lo so nemmeno io chi sono io!!!…”.

E’ questo il ‘fondo (doppiamente) catastrofico’ che, lungo l’asse della crisi dell’identità/identificabilità, interviene nel racconto di Forno e che è invece del tutto assente nella novella di Andreuccio.

Senza per il momento addentrarci lungo una via siffatta, mi limiterò qui a segnalare come il meccanismo che ho chiamato dialogico della doppia catastrofe (etc.) si riscontri – in termini molto simili – in un altro raccontino popolare massese, riferito questa volta ad un personaggio assai noto dell’”epica massese” (12), nonché di una storia anche abbastanza recente; si tratterebbe cioè di uno scherzo giocato a Pe’ de Caldan, di Borgo del Ponte (il nomignolo di Caldan essendo il soprannome di una delle famiglie di quel quartiere, tipicamente legato a quel quartiere). Ecco come si sarebbero svolti i ‘fatti’ (13):

“Un giorno certi buontemponi di Forno decisero di fare uno scherzo al loro amico […] Pe’ de Caldan, che abitava al Borgo del Ponte. Quando arrivarono sotto alle finestre di casa sua lo chiamarono e gli chiesero se voleva andare con loro a fare un giro. Pe’, tutto contento, scese le scale di corsa e chiese agli amici: – Dove si va oggi? – E uno gli rispose: – Ti portiamo in una cantina e ti faremo assaggiare un vino così buono che ti leccherai anche i baffi! -. E così cominciarono a bere, tutti insieme, ma mentre gli altri bevevano un bicchiere di vino, Pe’ ne beveva due o tre e alla fine era ubriaco come un “miccio”!

Ormai era già notte e quei burloni, che avevano già pronto il loro piano, tirarono fuori da un sacco un saio da frate e lo infilarono a Pe’, che dormiva e russava come un ghiro. Poi andarono al convento dei Frati Cappuccini e lo abbandonarono sotto al porticato. Al mattino, il primo frate che scende nel cortile trova questo povero Pe’ ancora addormentato e corre a chiamare gli altri confratelli. I frati, dopo averlo ben osservato, sono certi di non averlo mai visto prima. A Pe’, ancora mezzo addormentato, chiedono:

– Ma chi sei? Da che convento vieni? Che cosa fai qui?

Pe’ de Caldan allora risponde, grattandosi in testa:

– Mah! A me mi pare d’essere un frate… Però, per essere sicuri, sapete cosa dovete fare? Andate a casa mia, al Ponte, e guardate se in casa c’è Pe’ de Caldan. Se non c’è, vuol dire che io sono Pe’ de Caldan, se invece è in casa, allora vuol dire che io sono un frate… -. (…)”.

Il travestimento è in qualche modo equipollente – dal punto di vista narratologico – al misconoscimento da parte di un alter, ovverosia da parte degli alteri della comunità di appartenenza presa nel suo complesso: il travestimento è dunque, in questo caso, il “sostituto” narrativo della ipoidentificazione da parte dell’alter; e del resto il travestimento serve – com’è ovvio – a generare confusione d’identificabilità nell’alter (nel gruppo degli alteri). Ma qui succede qualcosa in più; ed è proprio questo qualcosa in più che costituisce il tratto analogico di raccordo nei confronti del racconto di Battì caduto dall’altana (14).

Il travestimento si pone, in questo caso, a confine fra il non riconoscimento da parte degli alteri (circa i frati che non riconoscono quel loro confratello mai visto sarebbe opportuno un discorso un po’ particolare) (15) e il misconoscimento dell’io da parte di se medesimo (Pe’ non sa più se lui stesso è Pe’ de Caldan oppure un frate). In altre parole, il travestimento si pone al confine fra la catastrofe d’identità/identificabilità – dell’io da parte dell’alter -, per un verso, e la catastrofe nomegeneticamente nonché crono-logicamente (potremmo dire creodicamente) successiva: quella che comporta la crisi dell’autoidentità/autoidentificabilità, per un altro verso.

E decisivo è anche in questo caso il tema del sito (dello spazio domestico) come alterità identificante; una prospettiva, questa, che getterebbe una luce nuova sul rapporto – certo assai stretto – fra nome proprio, in quanto “esprime” l’identità/identificabilità tendenzialmente perfetta di un soggetto, e il sito (inteso in senso ampio), come entità culturologica e come fatto semiotico (16).

Note

(1) A. De Angeli, Astuti e stolti nella tradizione orale di Forno, in “Le Apuane”, VIII, 15, maggio 1988, pp. 89-90; poi nel volume Forno: immagini e narrativa popolare, a cura di A. Cerboncini, Comune di Massa, Type Service 1991, pp. 52-54; (lavoro di dubbia scientificità che, per molti aspetti, lascia piuttosto perplessi; la raccolta di De Angeli- e della Cerboncini – appare filologicamente approssimativa e, diciamo così, “misteriosa”).

(2)   Un interessante esempio di “generazione autonoma” dei significanti – a partire da un significante che si manifesta marginalmente e/o casualmente – parrebbe esserci fornito da una fiaba dei fratelli Grimm, La saggia Elsa (n. 34). C’è a tavola il fidanzato Gianni, e la madre manda Elsa in cantina a prendere della birra. Ecco quel che avviene: “La saggia Elsa staccò il boccale dalla parete, andò in cantina, e per strada sbatacchiava bravamente il coperchio, per non annoiarsi. Quando fu in cantina, prese uno sgabello e lo mise davanti alla botte, per non doversi curvare, che poi non si facesse male alla schiena e non si buscasse un guaio imprevisto.  Poi si mise davanti il boccale e aprì la cannella, e mentre la birra scorreva, non volendo lasciar inoperosi gli occhi, li alzò verso la parete; guardò di qua e di là, finché, proprio sulla sua testa, scorse un piccone, che i muratori avevano lasciato là per sbaglio. Allora la saggia Elsa si mise a piangere, dicendo: – Se mi piglio Gianni, e abbiamo un bambino, e quando è grande lo mandiamo in cantina, e qui gli tocca spillar la birra, il piccone gli cade in testa e lo ammazza -. E se ne stava là, piangendo e strillando a più non posso per l’imminente sciagura. Sopra aspettavano la birra, ma la saggia Elsa non arrivava mai. […]”. L’allontanamento ‘libero’ dalla situazione di origine ovverosia la rielaborazione ‘autonoma’ (sul piano delle potenzialità necessarie) di essa comporta, su un determinato “tutt’intorno” significante (il piccone lasciato dai muratori), delle pause/interruzioni che per parte loro potrebbero prolungarsi all’infinitesimale (o, meglio, all’infinibile in quanto somma-combinazione di infinito e di infinitesimale).

(3)   Parrebbe appunto trattarsi, per molti versi, della tipica coppia di sciocchi di tanti racconti di folklore.

(4)   Mi riferisco soprattutto alle tematiche poste in atto dalla cosiddetta sindrome di Capgras nonché dalle sindromi ad essa affini o con essa correlate (sindrome di Fregoli, sindrome di intermetamorfosi). Si veda al prop. C. Maggini – G. Casu, La sindrome di Capgras. Illusione del sosia, in “Gnosis”, IV, 5, 1990, con la bibliografia riportata. Per quanto concerne il “tipo di sosia” (campo della ripetizione/ripetibilità) rinvio al mio lavoro Ripetizione/ripetibilità vs. catastrofe nella sindrome di Capgras, in corso di stampa. Anche la tematica del doppio converge non di rado in quella del sosia (o/e viceversa).

(5)   Cfr. nota 1.

(6)   La parte avrebbe per l’appunto la conformazione di un episodio ‘perfetto’, che potrebbe restare benissimo conchiuso in sé, privo di ulteriori svolgimenti.

(7)   Possiamo parlare di divenire metamorfico oppure di ‘avvenire’ (nel senso di avvenimento/-i) morfogenetico. I due punti di vista vengono a convergere nell’ambito di quella che ho chiamato la morfo-logica, o logica delle forme, in quanto “universalità dinamica” (proiettabilità potenziale e necessaria) delle forme tra logico-reale e logico-immaginario. Cfr. nota 8.

(8)   Ipotesi sulla non-finibilità della struttura e sulla costruzione infinitesimale dell’io, negli Atti del convegno Locale/globale. Significante/significato (Torino, Castello del Valentino 17 maggio 1991), in “Linguistica e letteratura”, XV, 1990.

(9)   Si tratta di un topos che ricorre pressoché costantemente – ad un grado più o meno forte di accentuazione – nei racconti di questo genere.

(10) G. Nerucci, Sessanta novelle popolari montalesi, Firenze, Le Monnier 1880, rist. Milano, Rizzoli 1977, n. XLV. Cfr. inoltre A. Gianandrea, Novelline e fiabe popolari marchigiane, in Biblioteca delle tradizioni popolari marchigiane, Jesi,  Ruzzini 1878, n. I (El mercante). Si veda il commento di V. Branca a Boccaccio, Decam. II 5 (3° ed. Torino, Einaudi 1992).

(11) Il tema del vino è, nella novella montalese, fortemente accentuato; assai più che non nella novella di Andreuccio, da cui la prima sembrerebbe dipendere.

(12) Una sorta di ‘epica’ un po’ istrionica che altrove ho definito carnevalesca: Cronache minuscole e rinvenimento dell’identità (per una semiotica del documento-verbale), in A. Borghini – G. Martini, Rifrazioni di storia a Mirteto di Massa, Massa-Carrara, Type Service 1991.

(13) Forno: immagini e narrativa popolare, cit., p. 41.

(14) Nel racconto di Battì come in quello di Andreuccio (e Paolino) da Perugia interviene per l’appunto il motivo della fuoriuscita inadeguata dallo spazio domestico-parentale, per la stessa via degli escrementi: il risultato sarà appunto di trovarsi assieme agli escrementi, “mescolato” con essi; cosa che Boccaccio non manca di sottolineare a più riprese. La sfera degli escrementi sembra già per parte sua collocarsi a confine fra lo spazio domestico e l’espulsione da esso; dunque, fra l’essere (ri-)conosciuto e il misconoscimento. L’”eroe” che si troverà ad essere espulso dallo spazio domestico-parentale analogamente agli escrementi, che si ritroverà nel loro stesso sito tutto imbrattato (cfr. in part. La novella di Andreuccio e di Paolino), in un certo senso non potrà – di conseguenza – che essere misconosciuto. Narratologicamente, l’ingannevole travestimento operato dagli amici di Pe’ de Caldan funziona alla stessa maniera. E del resto il fatto che l’”eroe” compaia tutto imbrattato equivale ad una specie di travestimento.

(15) Un discorso, cioè, circa il problema della cosiddetta percezione categoriale, anche nel suo rapporto con il travestimento (Pe’ de Caldan nelle vesti di un frate viene percepito categorialmente – come frate – dai veri frati): inutile dire che la percezione categoriale – la percezione di una individualità come ruolo e/o tipo – necessita di ulteriori procedimenti in direzione specificante (specificazione che nella sua “totalità” risulterà peraltro irraggiungibile). Per quanto concerne il tema dell’uomo che – in stato di ubriachezza – viene travestito da religioso (da prete) e che risvegliandosi si crede trasformato in religioso, cfr. E’. Ménard, in “Revue des traditions populaires”, 23, giugno-luglio 1908, pp. 240 sgg., n. LXXXVII (Le marchand de cuillères en bois, Contes et légendes de la Haute Bretagne). Di questo racconto, raccolto nelle Cotes-du-Nord, ci interessa in part. la prima parte: “Il était una fois […] un ménage si peu uni que l’homme et la femme se battaient tous les jours; le mari, marchand de cuillères en bois, fainéant et ivrogne, travaillait peu, buvait beaucoup, laissant aux aubergistes les bénéfices de son maigre métier. La femme, désespérée, alla trouver le recteur de son village, à qui elle confia ses peines conjugales; celui-ci, en bon pasteur, promit d’y rémédier. /  Quelques jours après, le recteur se rendant à un repas chez l’un de ses confrères, trouve notre marchand de cuillères en bois ivre-mort, vautré dans la boue du fossé et dormant à poins fermés; – vite le curé se dépouilla de sa soutane et prestment en affubla l’ivrogne qui, en se réveillant, se tata, s’examina, rassembla ses idées et finit par se convaincre que pendant son sommeil le Père éternel l’avait transformé en pretre pour aller remplacer le curé d’une paroisse voisine qui était mort depuis quelque temps. / Fort de cette conviction, il se mit en route, béenissant tous ceux qui le rencontraient en chemin. Arrivé à la porte du presbytère […]”. L’uomo si dirige dunque verso il/un luogo appropriato alla sua nuova “identità”.

(16) L’ultima parte di questo articolo trova il suo naturale prosieguo in un lavoro dal titolo Topo-logica dell’identità in un raccontino massese e altrove, in “Annuario della Biblioteca Civica di Massa”, 1989-90 (colgo l’occasione per segnalare che una versione sudtirolese della ‘storia’ della “saggia Elsa” – di cui ho trattato, nel lavoro qui sopra citato, in rapporto ai fratelli Grimm – si può leggere in B. Dal Lago ed E. Locher, Leggende e racconti del Trentino – Alto Adige, Roma, Newton Compton 1983, pp. 147-8, Die Kluge Else).

Bibliografia essenziale per le questioni teoriche trattate nel testo (oltre ai lavori già citati)

A.A.V.V., La teoria delle catastrofi, Milano, Angeli 1985, a cura di P. Bisogno

Atti del convegno Locale/globale. Significante/significato, Torino – Castello del Valentino 17 maggio 1991, in “Linguistica e letteratura”, XV, 1990, a cura di A. Borghini

  1. Bogatyrëv – R. Jakobson, Il folclore come forma di creazione autonoma, in “Strumenti critici”, I, 3, 1967
  2. Borghini, Percorsi “universali” dell’identità, relazione tenuta al convegno su Funzione del narcisismo e struttura della personalità. Il ritorno a S. Freud di J. Lacan (Torino 25-26 ottobre 1991), a cura della Sede di Torino del Gruppo Italiano della Scuola Europea di Psicoanalisi, in “Thelema. La psicanalisi e i suoi intorni”, 5, 1994, pp.63 sgg.
  3. Borghini, Prospettive e ipotesi di una semiosi del creodo, in corso di stampa
  4. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. Bari, Laterza 1959
  5. B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali, Torino, Einaudi 1987

Ch. S. Peirce, Semiotica, trad. it. Torino, Einaudi 1980

  1. Petitot-Cocorda, Identità e catastrofi, in A.A.V.V., L’identità, trad. it. Palermo, Sellerio 1980, a cura di Cl. Lévi-Strauss
  2. Petitot-Cocorda, Difficoltà logiche e filosofiche dell’idea di tempo, in A.A.V.V., Le frontiere del tempo, trad. it. Milano, Il Saggiatore 1981, a cura di R. Romano
  3. Petitot-Cocorda, Morfogenesi del senso, trad. it. Milano, Bompiani 1980
  4. Thom, Modèles mathématiques de la morphogénése, Paris, Union générale d’éditions 1974
  5. Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, trad. it. Torino, Einaudi 1980
  6. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. it. Torino, Einaudi 1980

Zenone di Elea, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti (Diels-Kranz), trad. it. Roma-Bari, Laterza 1983, vol. I (29)

Alberto Borghini