Tra rito e mito della ‘Ndenna – Gli usi arborei in un paese della Lucania
di Vincenzo Capodiferro
1. Riportiamo alcune testimonianze dell’uso: «Il rito pagano […] si compone di tre fasi: la ‘ndenna, la cunocchia e l’innalzamento.
La ‘ndenna, attualmente, si svolge la prima domenica di Giugno, con grande concorso di popolo […]. Dopo la … S. Messa mattutina, ci si riunisce nella piazza principale e … ci si reca a Favino, noto per la maestà dei suoi faggi […]. Nel bosco si va alla ricerca del faggio più diritto e maestoso che supera sempre i 20 metri di altezza e pesa tra le 13 e le 15 tonnellate […]. Una volta individuato l’albero, tutta la gente si avvicina e si procede al taglio con una motosega (una volta si usava la scure); il tronco viene sfrondato e in parte decorticato; poi viene trasportato sulla strada a forza di braccia e con l’aiuto delle pannodde: grossi bastoni preparati appena giunti nel bosco, con le scuri; servono da appoggio e da leva per spingere e guidare la ‘ndenna e le proffiche. Contemporaneamente, si scelgono altri faggi più piccoli, che vengono privati dei rami e trasportati sulla strada da un mulo, da un asinello o dal trattore. Sono le cosiddette proffiche, di altezza variabile dai 6 ai 10 metri, che serviranno per alzare la ‘ndenna. Si esce dal bosco in ordine […]. C’è la sosta per il pranzo … si gustano prodotti locali […]. Il vino si beve per lo più con la cannedda: piccolo becco di cannuccia, applicato alla bocca del fiasco, dal quale ognuno beve a garganella. Nel primo pomeriggio inizia la discesa verso il paese; prima entrano le proffiche che vengono depositate nella piazzetta; per ultima è trasportata la ‘ndenna, che fa il suo ingresso trionfale circondata da numerosissima gente […]. Fino agli anni sessanta-settanta partecipavano … i bovari e gli uomini del popolo. Di buon mattino, essi si recavano a Manca Rotonda, una località ai piedi del monte Raparo […]. Dopo il taglio si consumava una frugale colazione e poi ci si affrettava per giungere in paese prima che annottasse. La ‘ndenna e le proffiche erano trainate dai buoi […]. Le donne, che avevano preparato un ottimo buffet casereccio, attendevano gli uomini nella piazzetta del Santo […]. Durante la prima e la seconda guerra mondiale, il rito fu interrotto per mancanza di forza maschile, chiamata alle armi.
La cunocchia è la chioma di un pino di 6/10 metri, che viene tagliata la seconda domenica di giugno. Anche questa volta ci si riunisce in piazza … ci si avvia verso il monte Armizzone, al suono delle fisarmoniche e delle zampogne; in località «Vidente» si procede alla scelta dell’albero. Una volta individuato, ci si dispone in circolo ed ognuno assesta un colpo di scure al tronco fino a quando non cade a terra; si eliminano i rami più bassi e si taglia parte del fusto. Poi viene trasportato a forza di braccia, tra suoni e canti, in una radura, dove i più anziani … legano insieme i rami intorno a un lungo tronco sottile, facendolo rotolare e stringendo dei nodi ad ogni giro […]. Lungo l’estremità inferiore del tronco vengono decorticate ad anello 5 o 6 tacche, che serviranno a montare la chioma tramite zanche di ferro … sull’estremità superiore del faggio […]. Una volta che la chioma è stata impastoiata, si procede … ai sorteggi di chi deve precedere la cunocchia lungo le strade […]. Verso le 15.30 … si scende verso il paese […]. Al «Piano dell’Erba», la cunocchia viene presa dai giovani che la trasportano a spalla per il paese […]. Sul far della sera, si arriva alla piazzetta […]. Il luogo del taglio della cunocchia è stato più volte variato per mancanza di pini nel territorio di Castelsaraceno che, un tempo, nella località detta ‘Spiredda’, era coperto di abeti. La loro presenza è testimoniata da grossi tronchi trovati nel fosso ‘Salso’ e ‘Vaccarizzo’. È probabile che anticamente venissero utilizzate proprio le chiome degli abeti, ora scomparsi. Per alcuni anni si è andati nel bosco comunale ‘Vaccarizzo’ di Carbone, comunemente detto ‘ Vuddo’ dai castellani; in esso si tagliava la cime di un abete bianco […]. Un tempo, anche il taglio della cunocchia avveniva in modo più riservato: erano sempre solo gli uomini a recarsi sul luogo […]. La cunocchia veniva deposta a volte nella cappella del Santo, altre volte nella chiesa Madre […].
La terza domenica di giugno si procede all’unione della cunocchia con la ‘ndenna. Di buon mattino, alla presenza di poche persone … i due elementi vengono saldamente uniti […]. Di pomeriggio, verso le 17.30/18.00, dopo aver legato ai rami della chioma numerosi cartellini di legno, detti tacche, ognuno abbinato ad una offerta consistente in agnelli, polli, prosciutti, denaro ed altro, si inizia il sollevamento con le apposite proffiche disposte a cavalletto e con la guida delle corde […]. L’operazione ha fine quando il fusto risulta perfettamente verticale e le proffiche sono tutte a terra, mentre la base del tronco viene interrata nell’apposita buca, che viene riempita di pietre e terriccio. Arriva il turno dei cacciatori che, disposti in ordine secondo il sorteggio, sparano due colpi ciascuno verso le tacche appese alla chioma; chi fa cadere il cartellino ha diritto al premio. Da oltre trent’anni non si assiste più allo spettacolo straziante degli animali colpiti che, appesi vivi ai rami, tingevano di sangue il tronco […]. Al termine della sparatoria, ha inizio la scalata della ‘ndenna; il giovane, che è in grado di raggiungere per primo la cunocchia, prende tutti i premi. Si sale a mani nude […]. Un tempo gli scalatori si impiastricciavano di miele e di terriccio. La ‘ndenna e le proffiche vengono arriffate il giorno della festa alla fine del rito. La ‘ndenna rimane ritta nella piazzetta per una diecina di giorni, diventando sempre più spoglia, fino a quando il vincitore non l’abbatte. Questo rito si collega ai vari culti arborei presenti ancora in Basilicata nei seguenti paesi: Castelmezzano, Garaguso, Accettura, Pietrapertosa, Gorgoglione, con l’uso del cerro, e Rotonda, Viggianello, Terranova del Pollino, con l’uso del faggio […]. Il simbolismo sessuale si può rilevare anche durante la preparazione dei due elementi […]. La cunocchia è la rocca con la quantità di lino o lana avvolta intorno; potrebbe, pertanto, simboleggiare il filo della vita sostenuto dalla ‘ndenna […]. Potrebbe rappresentare l’albero della libertà, innalzato a seguito della rivoluzione partenopea alla fine del 1700 […]. La data della festa è stata mutata varie volte; agli inizi del secolo era fissata al 13 giugno; fino agli anni ’50 entro l’ottavo giorno del 13, per assicurare la presenza della banda musicale; in seguito fu scelta la data del 19 giugno; da due anni è stata stabilita la terza domenica di giugno»1.
2. « Nel 1636 fu elevato a Patrono di Castelsaraceno S. Antonio di Padova su proposta del P. Carlo Placuzio dell’ordine di S. Girolamo della Congregazione del B. Pietro da Pisa […]. I P.P. Cappuccini diedero la statua, come si rileva dal pubblico strumento per notaro Iacovino […]. I festeggiamenti in onore del S. Patrono si celebrano ogni anno il 17 Giugno con grande intervento anche di forestieri, attratti soprattutto dallo espletamento di una tradizione la quale annualmente si ripete e si rinnova con vero e sentito entusiasmo. Si descrivono, ora, le fasi di quel culto perché, esso, è veramente originale e tale resterà ancora chi sa fino a quando: si tratta dell’albero della cuccagna. Quindici giorni prima della festa, con un bando pubblico si avverte che il giorno X si va a prendere l’albero della cuccagna. Il mattino di quel giorno, tutti i proprietari di buoi si danno convegno nel bosco Favino. Gli animali bovini non sono mai meno di cento. A questi bovari si unisce gran massa di giovani contadini con un palo ciascuno in mano. Dopo la scelta dell’albero e dopo l’abbattimento di esso, tra i bovari si tira a sorte la fortuna e l’onore di cacciare, con i buoi, il fusto bello e pulito, dal bosco. Altra sorte si tira tra i bovari per chi deve entrare l’albero nella piazza di S. Antonio. Dopo una settimana dal prelevamento … si bandisce ancora il giorno nel quale si va nel bosco comunale di Carbone detto Budda, a prelevare la chioma di un abete (detta conocchia) da legare all’albero. A questo il giorno della festa, infatti, ne legano la predetta conocchia carica di agnelli, polli, prosciutti e quindi con grandi sforzi, il grosso e lungo fusto … viene eretto. Si dispongono intorno i tiratori con decine di fucili ed a turno essi aprono il fuoco sui poveri animali. Lo strazio è evidente: sebbene la legge sulla protezione animali lo proibisce, tuttavia la tradizione è tradizione e nemmeno i Carabinieri o le altre autorità possono intervenire: sarebbero guai! Dopo una mezz’ora di fuoco si da il via agli scalatori: è una scena magnifica: come grappoli gli audaci, vestiti con cenci ed impiastricciati di miele e terriccio, salgono; i più forti raggiungono l’alta cima, i meno, a distanza spesso di solo qualche metro dall’agognata vetta, scendono precipitosamente, perché le forze sono venute meno. È una tradizione che si ripete di anno in anno e chi volesse prevederne la fine, azzarderebbe una scommessa non facile a vincersi. Altre due tradizioni sono ancora vive: ogni anno si svolge un pellegrinaggio alla Vergine del Monte di Novi Velia; prima si andava al santuario a piedi impiegando sei giorni … si sale a piedi scalzi, dopo averli immersi in un’acqua che sgorga alle falde del monte […]. L’altra tradizione è quella della formalità del culto dei morti; questo è praticato con un’offerta di grano di orzo alla chiesa ed al prete, il mattino del 2 Novembre, depositando, sul pavimento della chiesa parrocchiale, in un mucchio che man mano va impinguandosi, il piatto di grano. Tutto questo è Castelsaraceno, dove la fede in Dio e nei valori degli uomini; dove la carità verso i simili, alla luce della legge divina ed umana; dove la speranza nelle vicissitudini di una storia sempre migliore, sono le virtù che alimentano l’anima e lo spirito del castellano»2.
3. La ieiuna atque arida traditio, come trasmissione, consegna, oltre che mera presentificazione antropologico-morfa, rappresenta invero una riproduzione drammatica rituale reale, che si ricollega inevitabilmente alla sua origine mitica. La sacralità originaria del fatto orbene, divenuta forse folklore, letteratura (si ricordi a proposito la tragedia greca), o machiavelleria paganeggiante innestata al cristianesimo va riconsiderata seriamente, e questo è il vero compito che dovrebbe assumersi qualsiasi studioso che si imbatte in questi sentieri. È vero sì che ogni edizione annuale della ‘Ndenna è diversa dalle altre, è unica ed irripetibile, ma se ci si sofferma sul come, può valere anche la tesi della suppositio, se, invece, ci si chiede il perché (quia) delle cose, allora tutto cambia. Il presente è incompiuto senza i suoi riferimenti temporali necessari: riscoprire la quidditas, la sostanza della ripetizione, che costituisce il ritus, non è senz’altro facile opzione e non esula certamente dalle difficoltà di traduzione ed interpretazione. Ogni versione è più imperfetta dell’originale e procede via via sempre più sbiaditamente anche a varie sostituzioni (ad esempio le vittime sacrificali appese all’albero con tacchetti). Il training psico-collettivo di un certo ritualismo, filtrato anche dal cristianesimo, con conseguente oblianza dell’origine, non giustifica affatto l’interpretazione che se ne può dare. È come la notazione di una sinfonia, la quale è sempre la stessa, ma diversa ne è l’esecuzione ed esemplare quanto più si avvicina al suo schema teorico. Il ritualismo della ‘Ndenna, rappresenta un rito arboreo. La magia agricola della raccolta è abbinata a quella arborea. Il culto degli alberi era presentissimo nella Lucanìa, l’antica terra dei boschi, come tuttora è presente nella sua forma cosciente, e non storica, in molte parti del mondo, come in India, ove tale venerazione è legata alla Dea Terra. Ma il nesso con l’albero si riscontra inevitabilmente in tutte le forme religiose, iconiche ed aniconiche: a Creta era legato al culto della Pòtnia. «Tutta le terra è soggetta alla Grande Madre, Signora della Montagna e Signora dei Serpenti, presiede alle cime, alle caverne e al mondo sotterraneo, è madre e nutrice degli uomini e degli animali: il suo regno si estende dal cielo alla terra, dovunque c’è vita»1; in Cina e nei paesi semitici, come l’Arabia, si appendevano vestiti ed ornamenti (a mo’ di frutti) agli alberi sacri, un po’ come si faceva quando si appendevano i doni e gli animali ancora vivi alla ‘Ndenna; ma si pensi ai cedri del Libano, sacri a Jahveh, come pure alla configurazione dell’albero della Croce; alberi e boschi sacri sono attestati presso tutti i popoli dell’Europa antica, latini compresi. «Il santuario celtico per eccellenza sembra essere stato il nemeton che designa la radura sacra, celeste, al centro della foresta. È là…che vengono praticati degli orribili sacrifici, e che si trovano delle statue grossolane che rappresentano gli dèi (simulacra maesta deorum). Un sacerdote officia in questo santuario appartato e segreto[…] E poi, soprattutto, il popolo non giungeva mai in prossimità del luogo di culto e lo abbandonava agli dei…I Druidi abitano nei boschi profondi…Adorano gli dei nei boschi senza fare uso di templi.»2; Attis è collegato al pino nel mito, nel rituale e nei monumenti; Osiride, ad esempio è legato al Djed, l’Albero Sacro, associato ai riti giubilari egizi e collegato alla resurrectio del Dio, al pilastro sacro (culto caro anche ai Cretesi) osiriaco che sintetizza gli aspetti dell’albero sfrondato e scorticato, della colonna vertebrale e della «stabilità». Nell’Antico Egitto veniva celebrato di notte un interessantissimo rito, quello appunto della “erezione del Djed”, come è testimoniato tra l’altro dal Libro dei morti: «O Thot, che rendi giustificato Osiride contro i suoi avversari, rendi giustificato l’Osiride N. contro i suoi avversari, così come hai reso giustificato Osiride contro i suoi avversari, alla presenza dei Divini Grandi Giudici che sono in Djedu in quella notte della erezione del Djed in Djedu. Riguardo ai divini grandi giudici che sono in Djedu, essi sono Osiride, Neftis e Horo, vendicatore di suo padre Osiride. L’erezione del Djed in Djedu è il piegarsi del braccio di Horo di Khem…»3. Nella tomba di Kheriuef a Tebe, il sovrano appare nell’atto di rizzare un grande simulacro di Djed, mediante corde, proprio come fanno gli innalzatori della ‘Ndenna. In molte vignette del Libro dei Morti all’apice dell’albero ci sta il sole splendente. L’erezione del Djed, poi sostituito con l’obelisco che si innalzava nelle piazze, è attestata già nel periodo protostorico nei ritrovamenti di Zaki Saad a Heluan. Il rito della ‘Ndenna è stato associato con l’albero della cuccagna, molto diffuso nel Regno di Napoli fino al ‘700, ma la sua origine è molto più antica e va ricollegata al conflitto neolitico tra religione astrale e religione terrestre. Come ha sottolineato il Prof. Antonio Capizzi, mio insigne professore all’Università, il nesso con l’albero era legato principalmente alle divinità maschili morenti e risorgenti, rivelatesi come la divinizzazione del re grano neolitico. Questa correlazione è stata già messa in evidenza nell’altro lavoro sulla magia del grano, Il chicco d’oro, riportato nel sito del Centro di Documentazione della Tradizione Orale. Attis, ad esempio, è collegato al pino; Osiride è raffigurato appeso ad un albero, o come una mummia coperta di rami; Dioniso è detto arboreo, le sue immagini sono pali con maschera, mantello e con rami frondosi per braccia. La coppia del Calendimaggio in Lucania è raffigurata da due alberi che vengono sposati. L’albero maschio, che rappresenta il dio che muore e risorge, di solito viene da un luogo lontano dal paese, a ricordo dello straniero eletto re e sposato alla regina onde evitare di sacrificare uno del villaggio. L’albero femmina ricorda la dea terra vergine e madre, che veniva inseminata per il raccolto. La forma rituale della ‘Ndenna rispetta pienamente questa simbologia. Era abitudine appendere ai rami come personificazione dei frutti dei pupazzi «impiccati». Ad esempio ad Efeso, Artemide, adorata in un albero sacro, veniva impiccata. Il corrispondente germanico era Odino «signore delle forche» e scopritore delle Rune. Nella strofa 138 dell’Edda, si legge «Io so che per nove notti rimasi appeso all’albero del vento, sacrificato ad Odino, cioè io stesso a me stesso». Adamo di Brera attesta che ancora nel Medioevo nel bosco sacro di Uppsala si sacrificavano uomini ed animali impiccandoli ad alberi sacri4. Non è il caso di dilungarsi sull’alberologia antica, per questo si rimanda magari a qualche altro studio.
4. Il rito della ‘Ndenna fa parte di un contesto cultuale molto più ampio, che in Lucania, forse più che altrove ha avuto modo di mantenersi, grazia al carattere ritroso di questa regione, da sempre ambita nello studio delle tradizioni antropologiche. Ricordiamo solo come questa Arcadia del sud fosse stata oggetto di molteplici studi, basti fare il nome insigne del De Martino. Onde allora non dilungarci arriviamo al dunque di questo breve articolo che vuole racchiudere le ragioni di un mito. A nostro avviso infatti esso deriva direttamente dalle usanze delle popolazioni che anticamente abitavano questa remota parte della Lucania. Il nome Lucania ha varie interpretazioni: terra dei boschi, terra dei lupi, terra della luce. In questa il Lagonegrese era abitato dai misteriosi popoli Sirini, dei quali ancor oggi si sa poco o nulla. I riferimenti geostorici sono certamente il monte Sirino, o monte di Siris, o Sin, il dio lunare, il monte Pollino, o di Apollo, il Sole ed i fiumi Agri, o l’Acheronte antico, ed il Sinni, l’antico Stige. Queste popolazioni spesso risultavano dalla fusione di immigrati con autoctoni. Tra le varie città della Siritide famose erano Pandosia ed Eraclea, per non giungere alle altre città della sì detta Magna Grecia, come la nota Metaponto. Non stiamo qui a fare un trattato dell’antica geografia, vogliamo solo mettere in evidenza il fatto che i coloni non erano solo greci, ma provenivano da varie regioni dell’oriente, in particolare i Sirini provenivano dall’Asia minore. Riportiamo la tesi che avevamo sostenuto sull’ “Eco di Basilicata”: «La questione omerica che ha animato tanti secoli di critica letteraria è ancora tutta da definire. Nessuna notizia certa si apprende dagli antichi autori sul cantore dell’Iliade e dell’Odissea. Se si esclude ogni valore storico dalle notizie biografiche delle “Vite omeriche”, non rimane che il nome del poeta e delle sue opere a far luce sulla sua oscura origine e personalità. Al nome “Omero” i Greci davano più di un significato e di etimologia allegorica: egli sarebbe stato “colui che non vede”, il cieco aedo, come cieco è l’aedo dei Feaci nell’Odissea. Sulla patria e sull’epoca, la tradizione comunque oscilla, incerta fra limiti molto ampi: “Sette città della Grecia si contesero il vanto di aver dato i natali ad Omero: “Smirne, Chio, Colofone, Itaca, Pilo, Argo ed Atene”, così cantava un anonimo in un famoso epigramma. Eppure fin dai tempi vichiani era valsa la tesi che i poemi fossero, più che attribuibili ad un unico autore, una raccolta di scritti poetici e mitici delle antichità greche. In un “Viaggio a Costantinopoli”, pubblicato a Parigi nel 1798 dal conte di Salaberry, l’autore, che evidentemente passa attraverso il Regno di Napoli e attraverso la Lucania, fa delle sconcertanti osservazioni a proposito delle Scuole Omeriche: “Si sa che Smirne, Clazomene, Colofone si sono disputati la gloria di aver visto nascere Omero. Si crede che Smirne sia la sua patria dietro le conclusioni che hanno tratto i viaggiatori, come l’inglese Hood a questo riguardo. Ma ciò che tutto il mondo non sa è che un abate ha fatto una dissertazione per provare che il nome di Omero non è altra cosa che il titolo dei libri sacri dei sacerdoti di Siris in Lucania e che la storia di Troia non è altro che un’allegoria. Le tombe di Achille, di Ettore e di Aiace, ritrovate nella Troade, sono invece trasposizioni mitiche”. Il conte non dà chiarimenti su chi fosse questo ecclesiastico, autore di quella dissertazione, ma ne dà il titolo, “L’etimologia del monte Volturno”. È veramente una tesi bella e sconcertante, che andrebbe approfondita e che farebbe luce sugli antichi popoli sirini del Lagonegrese, sui quali ci sono pochissime fonti storiche. Sappiamo che Siri ebbe un territorio ricco e fertile, la Siritide, sul quale si stanziarono proprio degli esuli troiani a partire dal XII sec. a. C., nonché coloni ionici, di Colofone, appunto. È possibile che di lì portarono il culto ed i libri sacri della dea babilonese Siri, o Sini, dea Luna. La città di Siri si trovava presso la foce del fiume Siri, l’attuale Sinni, tra Policoro e Rotondella. La Siritide fu una regione molto contesa dalle colonie vicine per la sua ricchezza, tanto che più volte fu invasa, per cui Siri decadde ed i suoi abitanti si spostarono a Pandosia, l’attuale Anglona, ove sorge un famoso santuario mariano sulle rovine di un antico tempio dedicato alla madre Sini, dopo di che rifondarono la colonia di Heraclea. Siri non è da confondere con Sinis il piegapini della mitologia greca. Il monte della dea Siri era il Sirino, o monte della Luna, che si abbraccia col monte del Sole, o di Apollo, il Pollino. Il fiume Sinni è il fiume di Sini, mentre l’Agri era l’antico Acheronte. Come riferisce il prof. Labanca nel suo “La leggenda del dio lucano”, dall’unione di Apollo con Siris, Sole e Luna, nasce un bambino di luce, Lucano, donde la Lucania». Se fosse vera questa tesi, cioè che i poemi omerici altro non fossero che i testi sacri rivelati dei sacerdoti Sirini, potremmo allora guardare con occhio diverso ai riti arborei in Lucania. Nell’altro lavoro antropologico, “Il Chicco d’oro”, riportato nel CDTO, avevamo dimostrato come le sette sorelle, ovvero i sette santuari mariani degli itinerari dei pellegrini nell’antica Lucania, altro non rappresentassero che una trasposizione della costellazione dell’Orsa in terra. In questo breve intervento invece vogliamo dimostrare che i riti arborei in Lucania seppure riportabili ad un’antica tradizione neolitica diffusa in tutto il mondo, furono quivi portati e localizzati da popolazioni esterne che si fusero con quelle aborigene.
5. In questo breve lavoro è nostro intento allora dimostrare due tesi: la prima afferma che l’antica Siritide miticamente non rappresenta altro che il mondo infernale. Ne danno testimonianza diretta gli antichi nomi della toponomastica. E dove non vi sono riferimenti documentari la toponomastica non mente mai. Essa è uno specchio fedle delle antiche tradizioni e non solo, è un grande documento storico a cielo aperto. Ed indovinate quale era l’antico nome del fiume Sinni? Lo Stige. E quello dell’Agri, l’Achero, o Acheronte, e quello del Bradano, Uradano, da “uro”, letteralmente il fiume che brucia, il Piriflegetonte. Acerenza, Acherontia, la città di Acheronte. Così tanti altri nomi di monti, di fiumi, di località strane che non stiamo qui a rammemorare per mancanza di spazio e di tempo. Probabilmente il prete che cita il Salaberry, autore dell’ “etimologia del Volturno”, aveva fatto proprio un’analisi storica sulla antica toponomastica. Chissà perché allora ci chiediamo, i templari scelsero proprio la Lucania come una delle sedi loro privilegiate, a parte la sua recondita posizione, lontana dagli sguardi indiscreti, e la sua condizione di perenne ancestralità. Ma torniamo al nostro argomento. La Lucania, infatti, non è stata sempre così, prima i fiumi erano navigabili ed il Metapontino era un’immensa palude, questo fino agli inizi del Novecento, quando ancora qui si combatteva la malaria. Gli antichi pastori confermano che guadavano i fiumi e seguivano gli antichi tratturi per la transumanza. Queste carrarecce erano le strade dell’antichità: in particolare la Popilia e l’Erculia collegavano gli antichi centri della Lucania, ed in particolare del Lagonegrese, l’area che ci interessa, le mitiche città di Grumento, Nerulo, Semuncla, Eraclea, Planula, Pandosia, Mercuria, Atena, Apollinea, Siri, Armento e tante altre. Anticamente i confini della Lucania andavano dal Sele a Reggio Calabria. Quando i Bruzi, o Calabri, si resero indipendenti, si restrinse a sud. All’interno dell’antico territorio della Lucania, l’area sud, abitata dai popoli Sirini è una delle più misteriose. Chi erano i Sirini? Donde provenivano? Non vi sono copiose testimonianze storiche. Che tutta l’attuale area di Policoro era un’immensa palude è confermato da molteplici viaggiatori, settecenteschi e oltre, del Regno di Napoli. La foresta di Policoro era uno dei gioielli del Reame. Vi provenivano da ogni parte per visitarla per la sua spettacolarità e stranezza. Era un tipo di foresta fluviale, acquitrinosa, che sorgeva proprio dalle foci dell’Agri e del Sinni: la palude stigia e si stagliava all’interno delle fauci dell’antica terra dei boschi e dei lupi. Vi erano delle specie floro-faunistiche sconosciute, tanto è vero che molteplici scienziati si avventuravano all’interno della misteriosa selva per ricercare cose inaudite. La foresta oggi è sparita, falciata a seguito della riforma agraria negli anni ’50, la palude è stata bonificata. Il barone Berlangieri, che era l’ultimo proprietario della foresta pianse amaramente quando vide abbattere quell’immane boscaglia, ma non poté nulla fare di fronte alla massa dei braccianti che reclamavano dopo secoli di lotte e di passione la tanto agognata terra. È rimasto qualche traccia nei boschi di Rotondella, ma nulla rispetto alla mitica lama dell’antichità. Per il colono, il migrante, l’avventuriero delle remote età della storia, chissà che impressione dovette fare la foresta di Policoro: l’Inferno. Era l’Inferno! Quella mitica terra dei morti tanto decantata dagli antichi poemi e scritti babilonesi ed egizi, poi passati ai greci e trasformati ed adattati a situazioni e zone le più disparate e diverse. La Siritide venne vista come la fertile ed ubertosa terra degli inferi. Pensate ad una stupidata, come alcuni tipi di piante vengano nominate nel dialetto locale ancora “averne”, ma “averna” deriva da Averno. Ecco perché i fiumi vennero denominati lo Stige e l’Acheronte, che passavano sotto le montagne di Apollo e di Siri, il sole e la luna. Se è vera la tesi del Salaberry, i sacerdoti Sirini nei poemi omerici descrivono l’Ade, ma trasposto in località reali, che erano quelle racchiuse nel cuore intaminato ed oscuro della Lucania, ove queste misteriose popolazioni trovarono riparo e presero la lingua greca. E questi poemi erano i testi sacri, la bibbia di un popolo, con i suoi usi, le sue tradizioni, i suoi costumi, la sua storia, il suo mito che si perde nei meandri ascosi delle antichità del tempo. Ma questa tesi sarà difficilmente dimostrabile, a meno che non si venga presi per pazzi. Correremo il rischio e riterremo che questo articolo sia fantastorico.
6. La seconda tesi che intendiamo sostenere è quella che ci permette di creare un collegamento tra i riti arborei del Lagonegrese allargato e l’antica terra dell’Inferno. Sopra nella testimonianza della cara amica Armenti sono riportati i luoghi ove si celebrano ancora riti arborei, anche se in maniere diverse, col cerro anziché col faggio, colla pece o con l’olio per non far salire i predatori di premi, questo ha poca importanza. Non sappiamo se vi siano altri luoghi ove nell’antichità si celebravano tali riti. Questi posti erano collegati all’antica terra dell’Inferno. Citiamone per opportunità solo una, Pietrapertosa, che oggi è nota per il “volo dell’angelo”, nell’antichità oltreché per le sue maestose rocce che assumono forme fantastiche. La terra dell’Inferno divenne poi, dopo il trionfo del cristianesimo, la terra del diavolo. Ed eccolo apparire colle corna in una di quelle naturali statue! E divenne stranamente il rifugio dei templari dopo la loro soppressione. A Pietrapertosa vi sono ancora i resti del “Castrum Saracenum”, il castello saraceno. I Saraceni distrussero Planula e vi fondarono un nuovo castello, che poi chiamarono saraceno. E se propriamente Castel saraceno sarebbe il fortilizio di Pietrapertosa, Castelsaraceno a quale città si riferirebbe? Vi è stato forse un clamoroso errore storico di trascrizione? Racioppi, infatti, annota a degli errori per la città di Planula? E se Castelsaraceno non è il vero Castelsaraceno, o forse un altro fortilizio fondato dai Saraceni, a quale località si riferisce? Forse a Semuncla? Questa ipotesi di Teresa Armenti potrebbe essere vera. Chi potrebbe saperlo? Riportiamo un ultimo esempio di archeologia mancata. A sud di Grumentum vi sono ancora gli scavi abbandonati di Serra Lustrante ad Armento. Oramai è rimasto ben poco, essendo tutto stato trafugato tra ‘800 e ‘900. Abbiamo i pezzi di Armento nei migliori musei del mondo. Ma a sud ancora si trovava la misteriosa città di Rsvas, che don Prospero Borea cita nelle sue storie. Donde ha preso le notizie il sapiente prete roccanovese? Forse direttamente dagli archeologi tedeschi che si recavano in Lucania fino alla fine del ‘900. Sappiamo che il giovane archeologo Rudiger Ulrich Heinz di Edimburgo, aveva iniziato gli scavi di Rsvas. Ma morì in uno strano incidente di ritorno da Armento insieme alla sua assistente ventenne di Locri. La sua auto andò a cozzare contro un gelso nei pressi di una fontana di San Brancato, nel comune di Sant’Arcangelo, nella notte del 21 agosto del 1970. Paradossalmente da allora gli scavi sono stati interrotti. Non fu fatta alcuna inchiesta per chiarire le cause dell’incidente: malore, svista, sonno… Molto strano! A quanto poteva andare all’ora una macchina negli anni settanta in strade malridotte come quelle della Basilicata dei tempi? Forse quel giovane studioso aveva trovato qualche amuleto maledetto, o aveva scovato qualche tesoro che andava ad alimentare il traffico di reperti archeologici. Tutto è probabile, ma la verità, ormai, non sarà più possibile saperla! Di fatto i tombaroli non smisero, come avevano fatto in precedenza, di proseguire i loro scavi clandestini. La città di Rsvas apparteneva al mondo preellenico e dovette fondersi poi colle colonie greche. I Rsvasini adoravano Rea, Artemide e Osiride, oltre che la trinità illirica, nella forma di selce a triangolo, come nei monumenti ritrovati nella foresta di Gallipoli-Cognato ad Accettura. È strano come il culto osiriaco fosse giunto in Lucania in epoche precedenti alla conquista romana ed alla colonizzazione greca. I coloni greci da parte loro offrivano olocausti a Dioniso, a Ercole Achero. Particolare è la testimonianza di lasciare i morti delle battaglie nel letto del fiume Acheronte, o Agri. I morti venivano abbandonati nelle sue acque in preda alle belve. Tale usanza può essere paragonabile solamente al culto dei morti nella religione zoroastriana! O forse apparteneva al contesto del culto mortuale aborigeno. Evidentemente il giovane Heinz aveva scoperto qualcosa di eccezionale: che i popoli Sirini, di cui la civiltà di Rsvas faceva parte, erano popolazioni orientali che erano giunte in Lucania prima dei greci, e che si erano poi fuse con esse, assumendone in particolare la lingua, oltre che con le popolazioni autoctone. E visto che di solito i colonizzatori davano alle nuove terre il nome delle loro città o nazioni di origine e questa regola vale sempre, pensate anche alla colonizzazione delle Americhe, è possibile che esuli assiri o sumeri, adoratori del dio lunare Sin, passati per l’Egitto, avessero risalito e colonizzato il bacino del fiume Sinni, donde il nome, sino alle sue fonti sul monte Sirino, ed avessero fondato la città di Siri. Don Prospero accenna a certe strane migrazioni, riportando certamente le scoperte dell’archeologo tedesco, dal quale gli furono suggerite, citando, senza andare oltre, le orde di re Cetthim, pronipote di Noè, che invase le regioni meridionali d’Italia, fondando vari centri, tra cui anche Rsvas, accompagnando gli Ausoni, i quali, temendo il ripetersi del diluvio, fondavano le loro città sui monti. La civiltà montana si distinse dunque da quella costiera dei coloni greci. Ecco come si spiega la grandezza di questi adoratori di Osiride, Iside, Indra, Varuna. Ci troviamo di fronte ad una grande esperimento sincretistico agli arbori della storia conosciuta. Così potrebbe spiegarsi anche il mito dei poemi omerici: i libri sacri dei Sirini tradotti in termini greci. Onde non dilungarci giungiamo alla conclusione di questo viaggio, cercando di definire bene i collegamenti tra gli usi arborei dei centri del Lagonegrese allargato e le antichità dei popoli Sirini. I riti arborei nella terra dell’Inferno sono riti propiziatori. L’albero maschio che viene accoppiato all’albero femmina e innalzato risale certamente alla civiltà neolitica come diverse volte aveva sottolineato anche il mio insigne professore all’Università, Antonio Capizzi, nella sua monumentale opera “L’uomo a due anime”, che non ha nulla da invidiare a “Il ramo d’oro” di Frazer. Nella terra dell’Inferno era necessario propiziarsi la vita, di qui l’usanza di appendere le vittime, forse all’inizio umane, all’albero, usanza anche essa antichissima: il sacrificio all’albero della vita. I riti arborei pur nella loro contestualizzazione in un bacino culturale ed antropologico indoeuropeo, vanno considerati altresì nella loro peculiarità: erano riti che appartenevano unicamente ai popoli Sirini ed a quelli delle montagne. Non abbiamo alcuna testimonianza di tali riti arborei nel mondo greco o romano per quanti riguarda la fascia della Magna Grecia lucana. È improbabile assolutamente che i riti dell’area del Sirino possano essere associati alle matrici dell’albero della cuccagna, o dell’albero della libertà del ‘700 napoletano. Forse è vero il contrario: i patrioti della rivoluzione del ’99, essendo la maggior parte di appartenenza massonica, si ispirarono ai riti arborei per le loro celebrazioni religiose o para religiose, né più né meno come fecero i cristiani quando convertirono i pagani, associando i loro riti antichi colla nuova religione. Il fatto che i riti arborei da molte parti furono associati al culto di Sant’Antonio è dovuto all’opera integralista dei riformatori cappuccini, che tra il ‘500 ed il ‘600 colonizzarono la Lucania. Simili riti possono ravvisarsi nel mondo celtico o germanico. Il grande esempio del sacrificio di Odino è significativo5. Questi Yggdrassill della Lucania rappresentano allora un mondo cultuale indoeuropeo, che abbraccia tutto da oriente ad occidente, testimoniato dalla runologia scandinava a quella iranica, ma è improbabile che i culti arborei fossero stati portati in Lucania dagli uomini del Nord, che pure scesero nel sud, colla calata dei Normanni o gli Svevi, altrimenti qualche storico, o cronografo, l’avrebbe riportato, a meno che non l’avesse considerato importante o volutamente nascosto, essendo nel Medioevo i cronici maggiormente ecclesiastici. Probabilmente come Odino i sacerdoti Sirini si appendevano agli alberi e poi profetizzavano i loro canti, che poi furono tradotti e riportati come poemi omerici. O le popolazioni Sirine erano propaggini di una misteriosa progenie, che non proveniva dal Nord, ma da oriente e prima della colonizzazione greca. Il giovane archeologo tedesco aveva scoperto in Lucania adoratori di Osiride e di Ammone Ra. E con esse queste avevano portato i loro riti, che furono appresi e riprodotti poi dalle popolazioni locali anche quando i popolatori si erano estinti. Osiride come Odino erano diventati i traghettatori dei morti, ma perché essi stessi, dei sciamani, avevano provato l’esperienza della morte-resurrezione, proprio come i druidi Sirini, vivevano nelle selve e si appendevano agli alberi. Il culto dell’albero è legato al culto della pietra: come i grandi dolmen naturali che abbondano nelle Dolomiti lucane. Ecco perché i culti arborei sono presenti nella terra dell’Inferno. Essi sono assimilabili piuttosto ai riti di erezione del Died che abbiamo citato, attestati nel libro dei morti degli antichi egizi. I sacri pilastri di Osiride sono gli obelischi e gli alberi sfrondati, le colonne vertebrali dei viventi, intesi essi stessi come alberi mobili. Gli Rvasini avevano portato dall’Egitto, o dal medio oriente i riti giubilari di morte e resurrezione del dio. Nelle vignette rappresentate nelle piramidi noi troviamo raffigurato un rito simile a quelli arborei, l’erezione di pilastri mediante corde. D’altronde le entità infere, o demoni, non erano concepiti nel paganesimo in senso spaventevole, come siamo oggi abituate a considerarle. Erano divinità del mondo sottano, con le quali, come con quelle del mondo soprano, gli abitanti del mondo di mezzo, dovevano, volenti o nolenti avere a che fare e dovevano in qualche modo accattivarsi. Erano divinità che presiedevano alla crescita vegetale e d’altra parte, è proprio nella terra dei morti che il seme cade e si rigenera, passando attraverso l’oscurità di quel mitico mondo, che veniva designato con diversi nomi, ma era sempre lo stesso, l’Ade. I riti arborei nella civiltà agraria sono in rapporto con la preoccupazione delle fecondità che non ha mai cessato di essere l’idea fissa di uomini resi sempre più ansiosi di fronte ai problemi della vita quotidiana dalla presenza di divinità e spiriti devastatori. Protezione del bestiame dalle belve, fertilità dei campi e dopo tutto, protezione e appoggio delle divinità, anche quelle infere: questo richiedevano le difficili condizioni di un’esistenza sempre minacciata, sempre riproposta giorno per giorno. Abbiamo così cercato di chiarire, con i limiti delle nostre a volte ardite supposizioni, il significato più profondo dei culti arborei, così come si celebrano ancora a Castelsaraceno e nell’area del Lagonegrese allargato. Occorrerebbero sicuramente approfondimenti più concisi e circostanziati. Rimandiamo a tempi migliori studi più proficui e salutando il lettore, speriamo di avere almeno in parte cercato di dare delle spiegazioni plausibili sui riti ed i miti arborei, in particolare in Lucania, su cui molto è stato scritto e a tal proposito questo breve articolo vuole essere solo un modesto contributo a questa grande ricerca.
Vincenzo Capodiferro
Bibliografia utilizzata:
1 Tratto da T. Armenti – I. Iannella, “Nella magia della fede”, Edisud, Braciliano 1996, pp. 37-54, ove è contenuto anche il canto popolare in onore di S. Antonio.
2 Tratto dalla “Monografia di Castelsaraceno” di Ermenegildo Cascini, ms, Castelsaraceno aprile 1957, foll. 35-37. Queste sono alcune tra le testimonianze del rito.
1 C. Milani, I palazzi di Creta, pp. 14-16.
2 J. Markale, Il Druidismo. Religione e divinità dei Celti, Roma 1991, pp. 148-149.
3 Il Libro dei morti degli antichi Egizi, formula XVIII, Roma 2001, p. 47.
4 A. Capizzi, L’uomo a due anime, Scandicci 1988, pp. 56 e sgg..
5 Cfr. G. Dumézil, Gli dei dei Germani, Milano 1974, pp. 53 sgg..