Dettami della ragione contadina
di Vincenzo Capodiferro
PREFAZIONE
Partiamo nella considerazione del tema fondamentale di questo saggio da una riflessione di Aristotele: «Si deve infatti sapere che gli uomini subiscono distruzioni di ordine differente: per opera di pestilenze, carestie, terremoti, guerre, malattie di ogni genere e per altre cause e soprattutto per diluvi impetuosi, come si dice essere stato quello al tempo di Deucalione, che certo fu grande, senza per altro, annientare tutti.
I pastori e gli abitanti delle montagne e delle pendici si salvano, mentre le pianure e i loro abitanti vengono sommersi… Orbene questi superstiti, poiché non avevano donde nutrirsi, sotto lo stimolo della necessità ciò che serviva per le esigenze: macinare grano, o seminare o qualche altra operazione del genere e chiamarono “sapienza” una tale invenzione… Successivamente escogitarono le arti… Successivamente ancora fissarono la loro attenzione sull’attività politica e inventarono le leggi e tutti quegli ordinamenti che organizzano le città e chiamarono ancora “sapienza” questa invenzione… Poi successivamente procedendo con metodo si sforzarono di pervenire sino all’essenza dei corpi ed alla natura creatrice… in un quinto tempo, da ultimo, giunsero fino all’essenza delle realtà divine»1. Anche Carlo Levi nota in sostanza una cosa simile: «Siamo innanzitutto di fronte al coesistere di due civiltà diversissime; nessuna delle quali è in grado di assimilare l’altra. Campagna e città, civiltà precristiana e civiltà non più cristiana stanno di fronte: e finché la seconda continuerà ad imporre alla prima la sua teocrazia statale, il dissidio continuerà. La guerra attuale, e quelle che verranno, sono in gran parte il risultato di questo dissidio secolare, giunto alla sua più intensa acutezza, e non soltanto in Italia. La civiltà contadina sarà sempre vinta, ma non si lascerà mai schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli della pazienza, per esplodere di tratto in tratto e la crisi mortale si perpetuerà. Il brigantaggio, guerra contadina, ne è prova: e quello del secolo scorso non sarà l’ultimo. Finché Roma governerà Matera, Matera sarà anarchica e disperata e tirannica»2.
I contadini hanno mantenuto per secoli immutata una civiltà millenaria, che addirittura affonda le sue radici nel mondo pre-diluviano. Aristotele ci espone una sua filosofia della storia, riprendendo magari tutte le antiche concezioni cicliche, che troviamo, ad esempio, in Esiodo, ma anche nelle profezie di un Daniele. L’uomo attraversa varie età: oro, argento, bronzo, ferro, piombo e poi riprende all’infinito, anche secondo il canone dell’eterno ritorno, o dei ricorsi storici vichiani, eppure questa categoria, quella dei contadini, è rimasta immutata nel volgere dei secoli, almeno fino agli anni ’80 nel Meridione d’Italia, prima di essere del tutto soppiantata. Le motivazioni le abbiamo apprese da Levi: la civiltà contadina è scomoda. Forse ancora sussiste in civiltà in-civilizzate, in Africa, o altri continenti. Ma ancora per poco, fino a che il mito irraggiungibile del “tramonto dell’Occidente” ammalierà tutte le turbe umane che si lanciano nell’immigrazione ed abbandonano la vita dei campi. Noi non possiamo però rinnegare le nostre origini contadine. La civiltà contadina, dalla rivoluzione del neolitico, caratterizza l’infanzia dell’umanità. Noi non possiamo rinnegare questo mondo inconscio che ci accompagna. Questo mondo magico era stato rilevato da Jung nei suoi Archetipi, da De Martino nei suoi studi, nel suo Sud e magia (1959), da Banfield nel suo Familismo amorale (1958), dallo stesso Pasolini, senza citare la filmografia, tra cui spicca il Vangelo secondo Matteo (1964), girato, non a caso a Matera. Solo il “Centrismo”, a partire dalla televisione, ha potuto cominciare a scalfire la civiltà contadina. Neppure il Fascismo ci aveva fatto niente! Deucalione è il correlativo di Noè. Quando seppe che Zeus per punire gli uomini del Bronzo voleva mandare un diluvio costruì un’arca e vi si imbarcò con la moglie Pirra. Stettero per nove giorni sul mare. Era figlio di Prometeo, il demone che ruba il fuoco dall’inferno e lo dona agli uomini. Padre della tecnica e dell’industria fu crocifisso come Cristo.
Ma chi sono questi contadini, che sono sopravvissuti al Sud fino agli anni Ottanta? Sono i figli di queste ataviche generazioni. Sono coloro che hanno conservato una sapienza inaudita, da bocca a bocca e questo patrimonio orale si sta dissolvendo sotto i colpi della globalizzazione, di internet, della natività digitale. I contadini sono stati cancellati dal mondo perché sono una categoria scomoda, indipendente, irremovibile. Stalin per levarseli di torno li costrinse ad un’industrializzazione forzata: cioè li trasformò in operai. Questo fu il Quinto Stato, sempre in periferia, che partecipò e non partecipò alla storia e fu sempre emarginato. Aiutò le rivoluzioni borghesi e quelle proletarie: ma tutte le rivoluzioni contadine sono tutte fallite! Di fatto possiamo dire che anche la rivoluzione proletaria, e tutte le altre appresso sono borghesi e fatte da borghesi per i loro interessi, perciò non sono riuscite. Marx era un borghese, Engels un industriale, Lenin era un borghese, un avvocato, solo il vecchio Stalin era un contadino: lui era figlio di contadini! Sapeva che significava essere contadini e proprio per questo li sterminò, quei kulaki. I contadini erano ancora i figli di Saturno: Saturno aveva loro insegnato a seminare il grano, ad usare la falce – la famosa mezzaluna che compare in molti simboli, compreso nella falce e martello comunista – a potare le viti. Erano i figli di Bacco, che aveva loro rivelato i misteri del vino, di Cerere e di tutti quei demoni, che nella prima età del mondo avevano assistito questi benpensanti (“scarpe grosse e cervello fino”). La parola “divino” deriva da “di-vino”. Questi strani contadini sono difficili da capire3.
Riportiamo solo alcuni riferimenti: secondo le testimonianze, dopo la congiura dei Pazzi a Firenze, questi superstiziosi contadini dissotterrarono Jacopo dei Pazzi, considerato uno scellerato e quindi cattivo seme della terra, e gli misero un capestro al collo e lo portarono in giro per la città prima di bruciarlo4. I morti sono come il latte della terra. Seppellire malfattori poteva inquinare e corrompere la terra. Non a caso era costume di alcuni contadini di festeggiare in occasione della morte dei bambini:
E saggi son quei rustici
Che al fanciullin che muore
Donan di rose un nuvolo
E un bacio, addio d’amore5.
E poi i contadini avevano tutta una loro religione magica. Credevano che le pietre vive toglievano la “jattura” e le ponevano sugli alberi presi da malocchio. Come ad esempio a Santa Sofia deponevano nei manipoli dei covoni un bastoncino che aveva toccato due serpenti attorcigliati, chiaro richiamo al caduceo. Ed usavano mettere negli abitini la spoglia del serpente bianco per protezione6. Sono questi contadini che adoravano i serpenti come gli Ofiti.
1 Aristotele, Della Filosofia, Roma 1963, p. 15.
2 C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Einaudi, Torino 1945.
3 Per capire la controversa mentalità legata alla ragione contadina, io invito sempre a studiare l’ottima opera filosofica ed antropologica di Antonio Capizzi, L’uomo a due anime, La Nuova Italia, Scandicci 1988, oltre ai classici dell’antropologia, a partire da Il ramo d’oro. Studio sulla magia e sulla religione, di James Frazer.
4 Della congiura dei Pazzi. Comentario di Angelo Poliziano, Napoli 1849, pp. 29-30.
5 Storia della Vercellese. Letteratura e arti, Torino 1824, II e IV.
6 Amuleti contemporanei calabresi di Raffaele Corso da Nicotera, in Rev. Antr., Paris 1909.
Tra le prime grandi rivoluzioni contadine ricordiamo naturalmente la rivolta di Spartaco. Tutti avevano promesso le terre: Crasso e poi Annibale aveva promesso le terre, Totila aveva promesso le terre1, e poi Murat, con l’eversione della feudalità, e poi Garibaldi, ma nessuno aveva mantenuto le sue promesse. Dobbiamo aspettare agli anni ’50 per vedere la riforma agraria in Basilicata. In quell’occasione tutta la tenuta di Policoro, dominata da una foresta ancestrale, ricordata da tutti i visitatori del Regno di Napoli, con specie mai viste della flora e della fauna, fu svenduta dal barone Berlangieri. La foresta fluviale fu bonificata e lottizzata, e Berlangieri, originario di Torino, che andava in giro con la pelliccia, divorato dai debiti di gioco, si tenne solo una parte con una sontuosa villa. Quei vecchi contadini amavano Mussolini ed il suo fascio, che ricordava loro i fasci o covoni di grano, e ricordava loro il fascio di legname degli etruschi con l’ascia a due fronti, la bipenne. D’altronde Mussolini si era ispirato al sindacalismo agrario dei Fasci. Aveva fatto le riforme agrarie, aveva bonificato terreni, aveva favorito l’agricoltura, facendo piantar grano persino sui binari della ferrovia. Hitler e Mussolin esaltavano la vita agraria e bucolica. Mussolini era considerato un dio in terra, ecco perché da Grumento a Montalbano ancora nell’età repubblicana votavano i sindaci del MSI. Tutto ad un tratto i podestà erano diventati sindaci: nulla era cambiato! Ai contadini non interessava il regime, monarchico, o fascista o repubblicano che sia stato, l’importante che essi mantenevano le loro tradizioni ed i loro usi. D’altronde gli stessi oppositori di Mussolini si erano ispirati alla secessione aventiniana ed all’apologo di Menenio Agrippa. Di tutta la cultura, la mentalità, la religione dei contadini era ormai intrisa la vita di tutti i giorni e tutti, senza accorgersene, facevano uso di quei simboli. Anche gli stessi nazisti si erano ispirati alla religione germanica ed ai simboli runici. Perfino lo stesso Stalin aveva fatto girare per la città di Mosca la Madonna Nera per sventare l’attacco dei nazisti. E quando gli venne in mente di far dissotterrare Tamerlano, ecco che la sciagura dell’operazione Barbarossa si abbatté su tutta la Russia. Allora fece rimettere Tamerlano a suo posto nel mausoleo di Samarcanda. La maggior parte della popolazione, almeno il 90%, era dedito all’agricoltura ed era analfabeta: cioè non sapeva scrivere, ma ciò non significa che era ignorante, ma che aveva un’altra cultura.
Un’altra ondata della rivoluzione contadina si ebbe nell’età della Riforma: «I contadini ribelli avevano preso come insegna lo scarpone dell’agricoltore, in contrapposizione allo stivale munito di sperone del gentiluomo, e questo Bundschun, o “stivale dell’Alleanza”,» – oltre al pifferaio di Niklashausen – «fece spesso tremare la nobiltà e il clero, tutti i corpi parassiti della società del tempo»2. Lutero subito si mise dalla parte dei ricchi principi, perciò evitò pure il rogo, e fece massacrare i contadini, che si erano ispirati alle sue farneticazioni religiose. Nel maggio del 1525, con lo scritto “ Contro le bande dei contadini assassini e saccheggiatori” invita subito i principi allo sterminio dei contadini. Nessuno aveva sterminato i Cavalieri, che pure si erano associati a loro. Mentre Lutero nel castello di Federico si dava alle crapule, al sesso ed alle bestemmie3, alla faccia della Riforma, Thomas Munzer predicava il comunismo mistico e venne fatto fuori, perché scomodo e non asservito al potere. Eppure anche e soprattutto i contadini avevano sostenuto la Riforma, oltre che i Principi, per meri scopi politici.
La costituzione agraria resta così immutata fino all’Ottocento, quando Bismarck col “socialismo dall’alto” riconosce i diritti dell’ultima classe sociale. Il contadino è spogliato di ogni diritto e asservito al signore. Lo stato principesco viene rinvigorito dal principio luterano della cieca obbedienza all’autorità: ecco il furerprinzip ante litteram! Per Lutero l’uomo non può essere libero, non ha il libero arbitrio, ce l’ha solo Dio, che salva chi vuole e quando vuole. Calvino poi benedice la ricchezza ed il capitalista: l’accumulo di ricchezze è segno di salvazione! Quale fine etico contrario alla povertà evangelica: non accumulate ricchezze sulla terra, dove tignola e ruggine consumano! Non si può servire a Dio ed a Mammona! Eppure Calvino esalta Mammona e crea le basi della mentalità borghese capitalista4. La stessa borghesia aveva sostenuto prima l’assolutismo monarchico e poi si era ribellata a questo, perché non le faceva più comodo ed aveva sostenuto le grandi rivoluzioni: quella inglese del 1648 e la gloriosa e pacifica rivoluzione del 1688, quella americana, quella francese del 1789, quella industriale e direi, anche quella russa del 1917. Tutti i moti liberali dell’Ottocento, la Rivoluzione di Luglio erano rivoluzioni borghesi. Nel 1848, la rivoluzione europea, si vide l’ingresso in scena del movimento operaio, di fatto sostenuto da borghesi, come Marx, Engels e Bakunin. Anche nel 1848 furono promesse le terre, ma poi non furono mai date. Nessuno aveva sostenuto i contadini! Solo Gesù poteva capirli, con le sue parabole granarie, vinarie e pastorali. Il 5 agosto del 1789 l’Assemblea Nazionale decreta l’abolizione del regime feudale e la liberazione dei contadini. Segue il 25 agosto la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino: Liberté, Egalité, Fraternité. Di fatto i contadini non furono liberati, o furono liberati solo sulla carta. La Costituzione del 1791, la Convenzione, il Terrore, il Direttorio, lo stesso Napoleone segnano sempre gli interessi della classe borghese. I contadini all’inizio avevano sostenuto la Rivoluzione, ma poi, vedendo traditi i loro interessi si erano rivoltati contro, ed avevano di nuovo invocato i Borboni: così si spiegano i moti lealisti della Vandea. Vengono subito repressi! La congiura degli eguali di Babeuf viene subito repressa! Gli stessi comunisti di sempre erano stati repressi da Cromwell5 come da Stalin. Stalin aveva con le sue purghe cominciato a sterminare tutti i comunisti veri, basti citare, tra tutti Leone Trotzkij. Tutti i totalitarismi: di destra (nazismo, fascismo, franchismo, etc.), di centro e di sinistra (stalinismo) segnano gli interessi della classe borghese, non degli ultimi, né degli operai, né dei contadini. Tutti gli stermini di massa fascisti, nazisti e comunisti sono attuati dalla classe borghese ai danni delle classi più abiette e degli intellettuali, sostenitori degli ultimi. La shoah, le foibe, gli armeni, i desaparecidos, gli indonesiani del ’65, i gulag, e tutti gli altri furono messi in atto dalla classe dominante per sopprimere la classe sottostante.
Platone considerava la classe dei produttori legata al ventre, alla concupiscenza, una classe abietta, senza cervello, il cui compito era solo quello di mantenere lo Stato. Con niente si poteva sterminare questa classe malvagia, che contaminava lo Stato! La malattia platonica aveva infettato tutto l’Occidente, – come Nietzsche aveva preannunciato – con le sue palingenetiche visioni utopistiche. Questa malattia continuerà nella storia: la “Città di Dio” di Agostino, “Utopia” di Tommaso Moro, “Nuova Atlantide” di Bacone, la “Città del Sole” di Campanella e tanti altri. Ancora Hegel considerava la classe sostanziale, quella dei contadini, come quella che deve mantenere il Dio Stato, mentre la classe generale, quella dei borghesi, poteva pensare ai fatti suoi e la classe universale, cioè gli impiegati statali era la classe suprema, intoccabile. Popper non a caso imputa a Platone la colpa, colla sua Repubblica, di aver fomentato tutti i totalitarismi di destra e di sinistra: i nazisti e i comunisti andavano con la Repubblica sotto il braccio. Lo zar Alessandro II, anticipando Lenin, nel 1861 aveva attuato l’abolizione della servitù della gleba, di fatto però le riforme non vengono mai attuate. La borghesia si oppone. Sopravvive il sistema della “mir”, la comunità rurale. Gli “zemstvo” erano le assemblee legislative distrettuali che si occupavano dell’amministrazione locale. Trai contadini già c’era il regime comunista: lo “zemstvo” è l’antesignano del soviet, del kolchoz, del sovchoz, del combinat. Poi verranno i Narodniki, i populisti, tra cui Leone Tolstoi, i nihilisti. Che differenza c’è tra l’Ochrana, la polizia zarista, ed il KGB? Non è cambiato nulla. Già gli zar mandavano gli oppositori in Siberia. Il 26 ottobre del 1917 Lenin e il Consiglio dei Commissari del Popolo emanano il decreto di cessazione delle ostilità ed il decreto sulla proprietà e sulla terra, una poderosa riforma agraria. Questa riforma come al solito dura pochissimo, il comunismo di guerra, come viene definito, riprendendo il “socialismo di guerra” di Ratenau, viene soppiantato dalla Nep, una costituzione ed una riforma borghese. Lenin crea i kulaki, che poi Stalin penserà a sterminare, tanto quale è il problema: un contadino in più, o uno in meno! Ma che significa “comunismo di guerra”? Che il comunismo poteva tornare utile solo come deterrente durante la guerra, ma dopo la guerra si torna tutti agli affari propri!
La classe dirigente non può scendere a compromesso con la classe dominante, cioè quella degli intellettuali scomodi che vanno subito massacrati – “uccidete tutti quelli con gli occhiali” era il motto – seguendo il linguaggio gramsciano e con la classe sottostante. Il comunismo non è approdato alla società comunista si è fermato alla dittatura del proletariato. Col potere non si hanno compromessi: una volta arrivati vi si resta invischiati. Il molinaio, nel linguaggio contadino, sta sempre impappato di farina! Il comunismo così ha creato una nuova classe dominante, sempre borghese, non ha distrutto il Dio terreno, lo Stato. Dove c’è potere c’è stato ed “il potere logora chi non ce l’ha”. Ma all’inizio la rivoluzione religiosa di Lutero e Calvino si è trasformata nella rivoluzione civile: quella rivoluzione inglese-francese-americana. I comunisti sono diventati atei e materialisti perché non sono stati capiti: la rivoluzione di Huss e di Munster si è trasformata in quella russa-cinese-cubana. Il modello comunistico dei riformatori, degli anabattisti e degli eretici, dei catari, dei bogomili, ma anche quello interno alla Chiesa, come quello dei francescani, si era ispirato direttamente al modello del primi cristiani: mettevano in comune i loro beni6. Serveto e Gentile furono arsi da Calvino perché anabattisti, cioè cristiani comunisti. Tutto il materialismo fu una violenta reazione psicologica a questa condizione di indifferenza verso i contadini fedeli, compreso il fermento della cultura sovietica, che traeva linfa dal marxismo. La costatazione di un violento stato di ingiustizie sociali, di sperequazioni, di abuso, di corruzione, tutte situazioni che vivevano in un mondo in cui le autorità molto spesso si dichiarano ossequienti alle dottrine spirituali e religiose poteva sì, in momenti di irrequietezza degli animi, portare al rifiuto totale di quelle dottrine spirituali e sovrannaturali, che venivano usate invece per nascondere gli interessi e le ingiustizie solo di una minoranza.
È stato il caso di quando i nostri contadini analfabeti votavano la DC: mettevano croce su croce, o mettevano croce su falce, se votavano il PCI. Di qui nasceva la speranza utopistica e palingenetica, apocalittica pseudo-cristana marxista della creazione di un mondo più equo e giusto. Il marxismo aveva materializzato gli stessi ideali del cristianesimo, li aveva laicizzati. Se il marxismo fu figlio delle correnti eretiche del cristianesimo, le rivoluzioni borghesi furono figlie della Riforma dei principi e di coloro che si erano schierati dalla parte dei ricchi e dei potenti. Ma quei contadini erano rimasti così, come li definiva Scotellaro: «Noi non ci bagneremo sulle spiagge/ a mietere andremo noi/ e il sole ci cuocerà come la crosta del grano». La borghesia camaleontica, pur di difendere i propri interessi aveva sostenuto tutte le forme di potere: prima l’assolutismo monarchico, poi le rivoluzioni civili, poi le forme di pre-totalitarismo (tipo Cromwell, Napoleone, Napoleone III, Bismarck) poi tutte le forme di totalitarismo: di destra in funzione anticomunista (fascismo, nazismo, franchismo, etc) e di sinistra (stalinismo, maoismo, castrismo, etc.). Il problema è che i totalitarismi pseudo-comunisti sono ricaduti nel sistema borghese monopolare, bipolare, o multipolare. Solo così possiamo capire perché Che Guevara fu ammazzato e Castro no: il primo non adorò il dio Potere, il secondo sì. Questo Dio Pon (riprendendo la denominazione di Campanella), insieme a Mon (da Mam-Mon-a) sono terribili. Comunisti che discendevano direttamente dagli eretici contadini furono gli anarchici, con a capo il Bakunin, gli insurrezionalisti, tutti coloro che si opponevano al sistema.
1 Vedi Antonio Motta, Totila e la Lucania, in Bollettino storico della Basilicata.
2 Eliseo Roduis, L’età della Riforma, in Les Temps Nouveaux, a. c. d. 1900-1902.
3 Cfr. F.F. Brentano, Luther, Grasset, Paris 1934, pp. 230 e sgg.
4 Si può consultare, a proposito, l’ottima e classica opera di Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.
5 Basta leggere R. Mousnier, Il sec. XVI e XVII, Firenze, 1959, pp. 260-262: «Nel 1641 la soppressione della Camera Stellata e della Corte di Alta Commissione liberò il proprietario e l’impresario capitalista. Le confische fecero passare numerose terre nelle mani dei mercanti della città. La guerra civile migliorò la posizione degli estremisti. I Livellatori contemporaneamente al suffragio universale, chiedevano la demolizione dei recinti ed il ritorno della coltivazione in comune. I proletari reclamavano la divisione delle terre e la loro liberazione dal potere regio che è nelle mani dei signori. Ma i proprietari e i mercanti consideravano la proprietà un diritto anteriore allo Stato, che esisteva appunto per proteggerlo. Secondo Ireton e Cromwell solo i proprietari costituivano realmente il corpo politico e potevano sfruttare a piacere i loro beni, senza sottoporsi al controllo di un superiore, né alle rivendicazioni dei poveri, la cui triste condizione è una punizione dei peccati». Questo pensiero lo ritroviamo in Locke.
6 At 4,32
Un esempio balenante di Rivoluzione contadina fu il brigantaggio meridionale in tutte le sue fasi: antifrancese, antipiemontese1. I briganti erano rivoluzionari contadini, avversati da tutti, dalla classe dirigente, dalla borghesia, sempre camaleontica massonica, che si era venduta ai dominatori, francesi, piemontesi. Questa rivoluzione, come tutte le altre, veramente comuniste, bassiste, poveriste, antiborghesi, fallì. Ogni rivoluzione che non è sostenuta dai ricchi, dai borghesi, fallisce, perché ogni guerra, ogni rivoluzione diventa un affare per i ricchi. Così furono le guerre mondiali. I contadini e gli operai furono costretti ad andare a trucidarsi ai fronti. E se non si ammazzavano venivano ammazzati come disertori. Chi ne ha beneficiato sono stati sempre i borghesi, non le masse. Le masse hanno beneficiato del bum economico, ma sempre in vista dell’arricchimento dei borghesi. Hanno sempre raccolto le briciole. Sono state sempre le schiave del sistema. Il Potere, il Denaro sono divinità a sé stanti, dominate dal Maligno. Questi Dei terreni, come Moloch, Mammona, esigono i loro sacrifici. Mammona poi è diventato ilMamone dei nostri contadini.
Non è la sede opportuna per riprendere tutta al storia del brigantaggio meridionale, ma prenderemo solo alcuni esempi, legati proprio al ritualismo contadino. Il primo esempio è ripreso dal brigantaggio antifrancese del 1806: si tratta di Jaccapitta di Acri. Jaccapitta significa letteralmente “spacca focaccia”. Questo nome particolare gli venne affibbiato perché il brigante, dopo aver trucidato tante persone le bruciava in grosse pire e compiva veri e propri atti di cannibalismo. Prendeva infatti parte della carne, o del cuore dei malcapitati, secondo alcune testimonianze e le trafilava in focacce per mangiarle. È un rituale azteco. Quando fu preso Jaccapitta, insieme agli altri, fu portato nella Piazza di Acri. C’erano tre falò e fu posto in mezzo e gambizzato, finché non cadde in uno di questi e fu divorato dalle fiamme2. Trai nostri briganti si racconta un fatto sconcertante: presero un malcapitato, cavarono le budella e le legarono ad un albero e lo costrinsero a girare attorno all’albero finché tutti gli intestini non furono avvolti a quello e morì dissanguato. Anche questo probabilmente risale ad un antichissimo rito arboreo. Si racconta dei Cerauni, o Tempestari, maghi che vivevano nelle campagne e compivano sacrifici umani. Una volta che a costoro fu negato del pane provocarono una tempesta che fece cadere in una frana tutto il costone del monte, seppellendo tutto, forse anche una città perduta, che non si trova più, Planula, o Pianola. Trai soprannomi dei nostri paesi ancora ci sono le Ianare. La Janara era una strega, ma nel significato originario era la Dianara, o sacerdotessa di Diana, associata alla Luna.
Un altro esempio lo ricaviamo da uno storia di uno degli ultimi briganti, vissuti agli inizi del Novecento, detto Groppa. A questo Groppa, tra gli altri, è legato un fatto sconcertante: convinse due fanciulli a portargli in un sacco le teste dei genitori in cambio di un tesoro. E questi lo fecero. Riportiamo la testimonianza di Generoso Viola, un anziano, che, prima di morire mi dettò una cantilena legata a questo fatto, la quale feci riportare, tra l’altro, nel giornale di Lauria Eco di Basilicata, col quale allora collaboravo:
Dite, dunque, Domenico Groppa,
so che pesa sull’anima vostra,
ed ecco la penna e l’inchiostro,
io son pronto a descriverlo qui.
Signor giudice ascoltate un pochino.
Io confesso ben tutto abbastanza.
Di sortire non ho più speranza,
in galera mi tocca finir!
Non avevo compiuto i venti anni,
di Gisella mi fui innamorato,
dai suoi cari mi fui ricacciato,
mi giurai di voler suicidar.
La ragazza mi voltò le spalle,
entrai in casa con torbido ciglio:
tutti e sette ammazzare li volle,
questo Groppa, fino all’ultimo figlio!
Signori miei vi voglio raccontare
di questa storia al mondo mai stata.
Successe a San Chirico Raparo,
un paesetto di Basilicata.
Lasciarono il padre e la madre i poveri figli,
per prendere da Groppa i mal consigli.
La sera insieme ai genitori hanno mangiato.
Nella mezzanotte uno e l’altro si è alzato.
La testa al genitore hanno tagliato!
Gli tagliarono la testa con la goccia,
gliela misero dentro una bisaccia.
L’afflitta madre seduta sopra il letto,
diceva: “figli miei che avete fatto!”.
Il più piccolo figlio maledetto
si alzò e le tirò un piatto.
Non gliel’aveva tirato tanto forte,
“adesso pure a te darò la morte!”.
La sorella dal letto s’è alzata,
dicendo:”mamma mia non sia toccata!”.
Ma quel crudele figlio si ribella.
Uccise la madre e ancora la sorella.
La sorella rimase con un chiodo al sonno.
Dopo venti giorni si svegliò dal lungo sonno,
rimase con un chiodo ficcato nella testa
quando si svegliò fece una grande festa3.
Concludiamo così questa breve introduzione. L’unico modo per far fuori la civiltà contadina è stato quello di eliminare i contadini non più fisicamente, ma moralmente, culturalmente, socialmente. E così ci sono riusciti, coi “riposi ventennali”, col neolatifondismo agrario dei politici europei e dei politicanti europeisti. Il neofeudalesimo delle multinazionali si è sostituito al feudalesimo storico: cosa è cambiato? Un bel nulla!
Come cantava Silvio Bongiannino:
Vedrai l’agricoltore
Che spula il grano per altri e ciba ghiande
E il vassallaggio in fiore
Come ai bei tempi di re Carlo il Grande
E udrai dagli apogei
Trogloditi che il Ciel stancano invano
Forse non d’altro rei
Che d’aspettar giustizia d’altra mano.
Torneremo di nuovo a cantare l’inno dei sanfedisti, sotto la guida del cardinal Ruffo e di Fra’ Diavolo. Torneremo di nuovo a cantare e suonar coi tamburi: Simmu Briganti e facimmu pavura …
La raccolta dei dettami si divide in tre parti: la prima è dedicata al calendario contadinesco, che raccoglie sia i proverbi per ogni mese, che le famose calemie, delle date di richiamo per verificare la situazione metereologica. La seconda parte è dedicata ad una raccolta di proverbi, rinvenuta tra gli anziani del paese in anni di ricerca. Infine ci sono le “Cose Coselle” degli indovinelli carnascialesci a sfondo sessuale, che richiamano i fescennini antichi.
1Proprio per un riferimento generalissimo si vedano Carmine Crocco, Come divenni brigante, Tradant 2009; Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1964; Tommaso Pedio, Brigantaggio meridionale 1806-1863, Cavallero, Capone 1987.
2 Raffaele Capalbo, Memorie storiche di Acri, Santa Maria Capua Vetere 1924.
3 Questa storia del brigante Domenico Groppa mi fu dettata in versi da un anziano di Castelsaraceno, Generoso Viola, classe 1913, ed è apparsa su Eco di Basilicata Magazine 2006.
CALENDARIO CONTADINESCO
GENNAIO
Natal nata, jnnaru iela
Natale nuota, gennaio gela
Jnnaru siccu, massaru riccu
Gennaio secco, massaio ricco
Kalemia andata 14 dicembre, ritorno 6 gennaio.
FEBBRAIO
Frivaru, curtu e amaru, quannu aggrogna ti faci zumbà l’ogna
Febbraio corto e amaro, quando s’aggronda ti fa saltare le unghia
Frivaru hirivaru, pulicoru, scanzanu finu a l’iškji i muntalbanu
Febbraio erbaiolo, Poliporo, Scanzano fino alle terre di Montalbano
(Iškji da ίσχω, posseggo, indica i fondi agricoli)
Kalemia andata 15 dicembre, ritorno 5 gennaio
MARZO
Marzu è pazzareddu, si li vota u cappeddu, iela a vacca cu tuttu u viteddu
Marzo è pazzerello, se gli volta il cappello gela la vacca con tutto il vitello
Kalemia andata 16 dicembre, ritorno 4 gennaio
APRILE
Aprili şcascia varliri
Aprile scassa barile
Kalemia andata 17 dicembre, ritorno 3 gennaio
MAGGIO
Aprili chiovi chiovi, maggiu una e bona
Aprile piovi piovi, maggio una e buona
Kalemia andata 18 dicembre, ritorno 2 gennaio
GIUGNO
Giugnu ha fauci ʼndu puňiu
Giugno la falce in pugno
Kalemia andata 19 dicembre, ritorno 1 gennaio
LUGLIO
Lugliu, u cavuru şcatta li corna ù tavuru
Luglio, il caldo schiatta le corna al toro
Kalemia andata 20 dicembre, ritorno 31 dicembre
AGOSTO
Ahustu è capu hi vernu
Agosto è capo d’inverno
Kalemia andata 21 dicembre, ritorno 30 dicembre
SETTEMBRE
Sittembri sittimbrinu hè civettu e sbarazzinu
Settembre settembrino è civetto e sbarazzino
Kalemia andata 22 dicembre, ritorno 29 dicembre
OTTOBRE
Truvu truvuluceddu, mitti ù vinu ʼndu tineddu
Ottobre ottobrino, metti il vino nel tino
(Truvu da δρύς? Quercia)
Kalemia andata 23 dicembre, ritorno 28 dicembre
NOVEMBRE
Sandu Martinu, mŋestri e cucini
San Martino, minestra e cucina
Kalemia andata 24 dicembre, ritorno 27 dicembre
DICEMBRE
A sanda Lucia, accurcia a notti e allonga ha rìa, quantu u passu ra gaddina mìa
A Santa Lucia, accorcia la notte e allunga il giorno quanto il passo della mia gallina.
(Ria, da dies, giorno, rotacismo)
Kalemia andata 25 dicembre, ritorno 26 dicembre
(Kalemia da καλέομαι chiamarsi, indica una tecnica di calendario meteorologico, per cui, secondo la conoscenza contadina antica, confrontando il tempo dei giorni di richiamo si possono prevedere le condizioni dei mesi successivi)
DETTAMI DELLA RAGIONE CONTADINA
A Cannilora ha virata è ssuta a fora, risponne a vecchia pì ʼndu furnu, è cchiù randa ka rafora
Alla Candelora l’invernata è uscita fuori, risponde la vecchia dal forno, è più dentro che fuori
(Variante della risposta, nun passa vernu si nu bbeni giugnu, non passa inverno se non viene giugno. Si noti il richiamo all’uso della medicina contadina di mettersi nel forno per curare i reumatismi, come pure si pensi, a tal proposito, all’usanza di porre le embrici o i mattoni, una volta scaldati vicino al fuoco, sotto le coperte, vicino ai piedi, prima di dormire).
A chiangi au mortu so’ lacrimi pirduti
A piangere il morto son lacrime perse
(Come pure, sulu au mortu si vaj senza ‘mtatu, solo al morto si va senza essere invitato).
Acinu acinu fannu ha macina, zippu zippu fannu ha meta
Acino acino fanno la macina, ramo ramo fanno la catasta
(Nel senso della macina dell’olio. Zippu da zippil, punta, estremità, zipolo. Variante: centu picca fannu assaie, cento poco fanno assai; picca da fr. pique).
Aqua passata nun macina mulinu
Acqua passata non macina mulino
Acqu’e pudditri, jati addurvi vuliti
Acqua e puledri andate dove volete
(Indica la condizione di spensieratezza e libertà dei fanciulli, paragonati ai puledri. Variante: cambana sona e pudditru pashj, campana suona e puledro pasce).
A gaddina faci l’ovu e au gaddu lì vruy u culu
La gallina fa l’uovo e al gallo gli brucia il culo
Ajutiti ka Diu t’aiuti
Aiutati che Dio ti aiuta
A lenga nu havi l’ossu e sfrangj l’ossu
La lingua non ha l’osso, ma frange l’osso
(Come dire: la lingua ferisce più della spada)
A paroli ka nun si rici hè a megliu
La parola che non si dice è la migliore
A pavura guard’a vigna
La paura guarda la vigna
A preta ka nun faci lippo nun è bona
La pietra che non fa grasso non è buona
(Lippo da λέιπος, grasso. La pietra che non sta ferma nel fiume e non si riveste di alghe non è buona. Indica estrema precarietà di chi cambia sempre condizione).
A recchezza ru povireddu è u sparagnu
La ricchezza del povero è il risparmio
(Sparagno da lat. med. Sparmiare, ger. Sparan, ted. Sparen, risparmiare).
A requie hi l’homo è a ccasa suia
La requie dell’uomo è la sua casa
A vecchia angora s’havìa ‘mbarari
La vecchia ancora doveva imparare
(Modo di dire che indica saggezza).
Bbeni hi patroni, beni hi gharzoni
Bene di padrone è bene di garzone
(Nessun padrone vuol bene ai suoi servi realmente, ogni suo bene è condizionato, è quello che merita un garzone).
Cchiù scuru ra menzanotti nun pò binì
Più scuro della mezzanotte non può venire
(Indica situazione incresciosa e difficile. Variante: addà passà a nuttata, deve passare la nottata).
Camba e fa cambà
Vivi e fai vivere
Chi battezza patrezza
Chi battezza padreggia
(Nel senso che chi fa il padrino di battesimo fa da padre).
Chi chianda e schianta nun perdi mai tembu
Chi pianta e spianta non perde mai tempo
Chi cummercia camba, chi fatiha jetta ù sangu
Chi commercia campa, chi fatica s’affatica
(Getta il sangue, espressione forte che indica dolore).
Chi ferra ʼnchiova
Chi mette i ferri inchioda
(Ferrare nell’accezione locale significa mettere i ferri ai cavalli).
Chi lassa a via vecchia e piglia a nova, sapi quiddu ka lassa, ma nu sapi quiddu ka trova
Chi lascia la via vecchia e prende la nuova, sa quella che lascia, ma non sa quella che trova
Chi lava a capu au ciucciu ci perdi aqua e saponi
Chi lava la testa all’asino ci perde acqua e sapone
Chi nun fabbrica e nun marita u munnu nu sapi mica
Chi non fa casa e non si marita, il mondo non lo sa
(Sim. Chi havi faccia si marita, chi non ci resta zitu, chi è sfacciato si sposa, chi non ci resta fidanzato).
Chi nun senti au patri e a mamma senti au riavulu ʼngarnatu
Chi non sente il padre e la madre sente il diavolo incarnato
Chi nun teni cchì fani, piglia a ccetta e si taglia li mani
Chi non ha che fare piglia l’ascia e si taglia le mani
Chi nu pundu passa, cent’anni camba
Chi passa un punto vive cento anni
Chi paha prima è mali sirivuto
Chi paga prima è mal servito
Chi pi tembu nun penza, pi tembu nun mangia
Chi per tempo non ci pensa, per tempo non mangia
Chi s’avanda sulu sulu, nu bali nu fasulu
Chi si vanta solo solo, non vale un fagiolo
Chi si corca cu criaturi a matina si trova pisciatu
Chi si corica con bambini, al mattino si trova pisciato
Chi vaj cu zoppu si ‘mbara a zuppicà
Chi va con lo zoppo si impara a zoppicare
Chi voli vai, chi nun voli manna
Chi vuole va, chi non vuole manda
Cuntu accurtu, amicizia allongu
Conto a corto amicizia a lungo
(Varianti: patti chiari amicizia a lungo, il parlar chiaro è degli amici).
Diu ci ni liberi ru povuru arricchutu e ru riccu carutu in povirtà
Dio ci liberi dal povero arricchito e dal ricco caduto in povertà
Diu ci ni liberi ra li vascj caruti
Dio ci liberi dalle basse cadute
(A volte si fa più male chi cade dal basso che chi cade dall’alto).
Fa bbeni e scorda, fa mali e penza
Fai bene e scorda, fai male e pensa
Fa cumi t’è fattu ka n’è piccatu
Fai come t’è fatto che non è peccato
Fa pi figghj e fa pi porci
Fai per figli e fai per porci
Homo allegru Diu h’ajuta, nasci poviru e mori curnutu
Uomo allegro Dio l’aiuta, nasce povero e muore cornuto
Hi pinninnu arrozzulinu puru li cucozze
In discesa rotolano pure le zucche
(Pinninu, lat. adpenninum).
Hè fatihu assaie, quannu so li festi granni, quannu mangiu a casi l’ati e quannu fatihu pì me e nun pi l’ati.
Io lavoro assai quando sono le feste grandi, quando mangio a casa degli altri, quando lavoro per me e non per gli altri.
(Sim. Dui mangiati si ponnu fani, dui fatihati none, due mangiate si possono fare, due lavori no).
L’herva ka nun voj, ti nasci ʼnda l’hortu
L’erba che non vuoi ti nasce nell’orto
Li parenti so cum’a li gambali, cchiù vannu stritti e cchiù fannu mali
I parenti sono come gli stivali, più vanno stretti e più ti fanno male
Mali e beni tre ghiurni teni
Male e bene tre giorni tiene
Maritu e fighli cumi ti li manna Diu ti li pigli
Marito e figli come te li manda Dio te li pigli
Mazza e panella fannu i figli belli
Mazza e panella fanno i figli belli
Megliu fessa ka sinnicu
Meglio essere stupido che sindaco
Megliu sulu ka mali accumbagnatu
Meglio solo che male accompagnato
(Sim. Vita sola vita santa).
Mircanti e porcu pisalu roppu mortu
Mercante e porco pesalo dopo morto
Nisciuni nasci ‘mbaratu
Nessuno nasce imparato
Nun creri a femmina quannu chianti e a l’hommine quannu jura
Non credere a donna quando piange ed ad uomo quando giura
Nun passà u jumu surdu ka ti neca
Non passare il fiume sordo che ti annega
(Le fiumare che non buttavano mai acqua erano considerate pericolose, non a caso una volta, di serena giornata, mentre tempestava molto lontano ed a monte di una di queste, furono travolti un vaccaio con tutto il suo bestiame. In senso umano significa di non fidarsi mai di coloro che sembrano timidi, chiusi ed introversi, sono quelli che ti scavalcano).
Nun ti fa gabbu ka ti cala a gobba
Non ti gabbare che ti cala la gobba
Nu pilu tira na zoca
Un pelo tira una corda
Nun ti fa pecura k’u lupu nun ti mangia
Non ti far pecora che il lupo non ti mangia
(Non essere troppo vile di fronte alle vicissitudini della vita, altrimenti c’è il rischio che gli altri ti sbranino).
Occhiu ka nun beri, cori ka nun senti
Occhio che non vede, cuore che non sente
Paroli a menti si li porte u venti
Parole a mente se li porta il vento
(Variante locale del “Verba volant”).
Passatu u sandu è passata a festa
Passato il santo è passata la festa
Pecura zoppa au varu t’aspetta
Pecora zoppa il varo ti aspetta
(Varo da lat. varare. Forcella stanga. La pecora zoppa veniva legata di testa al varo. In senso umano, chi sbaglia, prima o poi paga).
Piattu cummigliatu nu cachinu li moschi
Il piatto coperto non lo sporcano le mosche
Picca pecuri e picca vigna, l’una è caria e l’ata è tigna
Poco pecore e poco vigna, l’una è carie e l’altra è tigna
(Nel senso che non vale la pena fare per poco quando si può fare per molto. Il mestiere del pastore o del vignaiolo è faticoso anche con pochi capi o con poche viti. A questo punto conviene tenerne molti).
Piglia u bonu quannu l’hai, ku malamende nun manga mai
Prendi il bene quando l’hai che il male non manca mai
Pignata sana dura na sittimana, pignata lesa dura nu mese
La pignatta sana dura una settimana, la pignatta lesa dura un mese
(A volte campa di più chi è malato che chi è sano).
Pili russi e cani pizzìati vonnu accisi appena nati
Peli rossi e cani chiazzati vogliono uccisi appena nati
(Si riferisce alla credenza contadina nella diavoleria insita in coloro che nascevano con il pelo rosso. Si pensi a proposito alla novella verghiana “Rosso malpelo”).
Puru li sfuttuti vannu ʼndu paravisu
Anche gli sfottuti vanno in paradiso
Quannu u schiavuccu vai e veni a micizia si mandeni
Quando il dono va e viene, l’amicizia si mantiene
(Schiavuccu o muccaturu da fr. muchoir indica il fazzoletto o tovagliolo in cui venivano avvolti i regali).
Quannu viri focu, mitticci focu
Quando vedi fuoco mettici altro fuoco
Roppu pasca venimi pesca
Dopo pasqua vienimi a pescare
(Variante locale del “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”. Altri. Pasca ʼnda na frasca, pasqua in una frasca).
Sottu a nevi pani, sottu a l’acqua pani
Sotto la neve pane, sotto l’acqua fame
Si respetta u cani p’amuri ru patroni
Si rispetta il cane per l’amore del padrone.
Si sì marteddu vatti, si sì ancudini statti
Se sei martello batti, se incudine stai
Stripa ka troui
Stipa che trovi
Si u ciucciu nun voli vevi è ʼnutulu ku fişchj
Se l’asino non vuol bere è inutile che lo fischi
Sulu ha morti nun g’è rimeriu
Solo alla morte non c’è rimedio
Tandu gira lu rininusu guerru finu a ki trov’a lininosa scrofa
Tanto gira lo sguattero verro finche trova la linosa scrofa
(Lininosa dal fr. lineux, lineuse).
Tandu vai u quartaru ʼndu puzzu ka ci lassa ha manecchia
Tanto va il secchio nel pozzo che ci lascia il manico
(Var. del “tanto va la gatta al lardo”. Manecchia dal lat. manicula).
Terra quandu viri, casa quandu staj
Terra quanto vedi, casa quanto ci stai
Torta vai e diretta veni
Storta va, diritta viene
Tre so li putendi, u re, u riccu e chi nun teni nendi
Tre sono i potenti, il re, il ricco e chi non possiede niente
U bonu acciri u tronu, u tristu h’aiuta cristu
Il buono l’uccide il tuono, il tristo l’aiuta Cristo
U cani mozzica sembi au strazzatu
Il cane morde sempre lo straccione
U cavaddu iastimatu li luci u pilu
Al cavallo bestemmiato gli luce il pelo
U ciucciu vecchiu ‘mmanu au fessa mori
L’asino vecchio muore in mano allo stupido
(Si riferisce all’usanza degli astuti mercanti di saper rifilare agli sciocchi gli asini vecchi nelle fiere, ragion per cui si dovevano controllare i denti, da cui si dice “ a caval donato non si guarda in bocca”).
U figliu mutu u capisci ha mamma
Il figliolo muto lo capisce la madre
U saziu nun creri au riunu
Il sazio non crede chi è digiuno
U scarparu vay scavuzu
Il calzolaio va scalzo
U superchiu roppi u cuperchiu
Il soverchio rompe il coperchio
(Var. u troppu stroppia o scocchia, il troppo storpia).
Vrocculi, zocculi e priricaturi, roppu paska nun serivinu cchiù
Broccoli, zollosi e predicatori, dopo Pasqua non servono più
COSE COSELLE
Le “cose coselle” erano degli indovinelli, sovente a sfondo sessuale, molto usati nei periodi carnascialeschi.
A sera cy a mitti, a matina n’à levi
La sera ce la metti, la mattina la togli
(La chiave dalla serratura)
Bella femmina hi havutu palazzu, ianca so e nera mi fazzu, vahu ʼnderra e nun mi sfazzu, vau a chiesia e lumi fazzu
Bella donna d’alto palazzo, bianca sono e nera mi faccio, cado a terra e non mi sfaccio, vado in chiesa e lume faccio
(L’oliva)
Camici iancu, simenta nevura, rui ha guardinu e cinku a menino
Camice bianco, semente nera, due la quardano e cinque la menano
(Il foglio, l’inchiostro, gli occhi e le dita)
Carcioffula mia novella t’amava quannu eri zitella, mò ka ti si fattu u pilu, statti bona carcioffula mia
Carciofa mia novella, ti amavo quando eri zitella, adesso che hai fatto il pelo, stammi bene carciofa mia
(La spiga di mais)
Centu fili e na curdella, a casa brutta t’ha fannu bella
Cento fili e una cordella, la casa brutta te la fanno bella
(La scopa)
Chi bella giovini sono ia, vau vistutu hi mandu iancu, quantu è bella ha saputa mia, ka si struy chu sonu e candu
Che bella giovane sono io, vado vestita di manto bianco, quanta è bella la mia fama, che mi distruggo con suoni e canti
(La candela)
Chi ha faci a faci pi ‘bbenni, chi h’accatta li rispiaci, chi s’ha gori n’a veri
Chi la fa la fa per venderla, chi la compra gli dispiace, chi se la gode non la vede
(La cassa da morto)
Chiù so li festi granni, chiù u figliu rai mazzi a mamma
Più sono le feste grandi, più il figlio dà le botte alla mamma
(La campana)
Chiù stai ʼnda l’accqua e chiù ʼndosta
Più sta nell’acqua e più s’indurisce
(La fune)
Ci li mitti tirandi, ni li levi musci
Ce li metti duri e li togli molli
(I maccheroni)
Ci’ù mitti musciu e nù levi tostu
Ce lo metti moscio e lo togli duro
(Il pane dal forno)
Cu nu puňiu, hinghij na casa
Con un pugno riempi una casa
(La lampada)
È grossa e tunnuledda, teni u grassu ra purcedda
È grossa e tonda, tiene il grasso della porcella
(La zucca)
È havuta quantu a nu gaddu e teni a ciampa ru cavaddu
È alta quanto un gallo e ha l’orma del cavallo
(La pignatta)
È longa e liscia, ha teni ‘mmanu quannu piscia
È lunga e liscia, la tieni in mano quando piscia
(La bottiglia)
È longa e tonna e ha ficchi ʼnda cionca
È lunga e tonda e la ficchi nella bocca
(La pala del forno. Cionna, et. incert. dal gr. Κίων, colonna, ugola, varice, nel sign. Locale la bocca dell’utero)
È nu parmu quasi quasi e ʼndu pilu trasi trasi
È un palmo quasi quasi e nel pelo entra entra
(Il rasoio. Trasi dal lat. transeo)
He tiru, tò tiri, hè chiangu e tò riri
Io tiro, tu tiri, io piango e tu ridi
(Il rovo)
Iamu a curcà li zimbillotti, iamu a fani au cori ri la notti, li cosi ri la notti li facimu, pilu cu pilu li cunjungimu
Andiamo a coricare gli zampillotti, andiamo a fare nel cuore della notte, le cose della notte noi facciamo, pelo con pelo li congiungiamo
(Gli occhi. Zampillotto, dim. di zampillo. Facimu, facimus. Cunjungimu da coniungo).
Ianchi li cosci ra figlia ru rucu, ianchi li cosci e nivuru u bucu
Bianche le cosce della figlia del duca, bianche le cosce e nero il buco
(Il caminetto)
L’heriva cota cota, n’a canusci si n’è fiuruta
L’erba colta colta, non la conosci se non è fiorita
(La cipolla)
Liccu ‘mbirliccu, ʼngulu t’hu ficcu
Ti lecco e ti rilecco, in culo te la ficco
(L’ago. Rif. all’uso di leccare il filo prima di metterlo nella cruna dell’ago)
Mamma granni appesa stìa, tattu granni ʼngulu vattia
Mamma grande appesa stava, papà grande in culo batteva
(La caldara appesa al fuoco)
Mamma mia! Ha spagnuledda ka ʼndu lettu mi facìa, ogni botta ka mi rìa, ricrià mi sindìa
Mamma mia! Il filo che mi faceva dentro il letto, ogni botta che mi dava, mi faceva ricreare
(I tagliolini. Forma locale di pasta a forma di filo)
Maritu meiu! Isti e vinisti e quiddu ‘mmenzu ki ni facisti
Marito mio! Andasti e venisti e di quello in mezzo cosa ne facesti?
(L’asino)
Minzignori l’havi chiù grossa, è vistuta hi carni e hossa, pu beni ka li vulìa, sembi ‘mmanu s’ha tinìa
Monsignor ce l’ha più grossa, è vestita di carne e d’ossa, per il bene che le voleva, sempre in mano se la teneva
(l’anello)
Mò si parti a navicedda, ku nu velu cummigliata, quedda ka stai rainda sempi chiangi, quedda ka stai rafora sana e canda
Adesso parte la navicella, coperta di un velo, quella che sta dentro piange sempre, quella che sta fuori è sana e canta
(La neve)
N’ha chiami e beni, n’ha tocchi e grira
Non la chiami e viene, non la tocchi e grida
(La scorreggia)
Nda na cammira scura scura, c’è nu pezzu hi carni crura
In una camera scura scura, c’è un pezzo di carne cruda
(La lingua)
ʼndu voscu nasci, ʼndu voscu pasci, arrivi a casa e fragassu faci
Nel bosco nasce, nel bosco pasce, arriva a casa e fracasso fa
(Il telaio)
ʼnnandi s’accurta e diretu s’allonga
Davanti si accorcia e dietro s’allunga
(La via)
Nu parmu ni tangu, nu parmu ni vogliu, nu parmu rajnta, ficcatu c’iù vogliu
Un palmo ne tengo, un palmo ne voglio, un palmo dentro ficcato ce lo voglio
(Il piede, la calza, la scarpa)
Pinnulinu ka linnulava, mustazzinu ka l’aspittava, si caresse pinnulinu, ki risati mustazzinu
Pendolino che pendolava, mustacchio che l’aspettava, se cadesse pendolino che risate mustacchio
(Il salame appeso e il gatto)
Quannu a vecchia murmureia, ‘mmenzu a li gammi li pinnuleia
Quando la vecchia mormora, in mezzo alle gambe le penzola
(La corona del rosario)
Quannu è birginella piscia ha campanella, quannu è svirginata, piscia ha scampanata
Quando è verginella piscia a campanella, quando è sverginata, piscia a scampanata
(La botte)
Quannu era vacandìa, nu pirtusu mi rulìa, mò ka so maritata, u pirtusu m’è sanatu
Quando ero signorina il buco mi doleva, ora che sono maritata il buco mi è sanata
(L’orecchio e gli orecchioni. Pirtusu da pertusum, pertundo)
Quannu piscia unu, piscinu tutti quandi
Quando piscia uno, pisciano tutti quanti
(Le tegole)
Quattu frati, nun s’arrivinu unu ku l’atu
Quattro fratelli, non si arrivano uno con l’altro
(Il telaio)
Reci a menino, rui a guardinu e ‘mmenzu ci stai u bombula bombula
Dieci la menano, due la guardano e in mezzo ci sta il pompon
(La calza)
Rui lucendi, rui pungendi, quattu mazzocculi e na scupetta
Due lucenti, due pungenti, quattro zoccoli e una scopetta
(Gli occhi, le corna, le zampe e la coda del bue)
Si Diu voli e a Maronna v’ù pirmetti, ghè t’u rau e tò t’u mitti
Se Dio vuole e la Madonna velo permette, io te lo do e tu te lo metti
(L’anello nuziale)
Setti e ottu sott’a nu cappottu
Sette e otto sotto un cappotto
(L’arancio)
Sopa na mundagnedda, ci so tandi picuredde, arriva u lagrimandi e si li fotti tutti quandi
Sopra una montagnella, ci sono tante pecorelle, arriva il lacrimante e se le piglia tutte quante
(I pidocchi e il pettine)
So tre frati e nun si arrivinu unu cu l’atu, unu mangi e nun s’abbotta, l’atu rormi e nun si riveglia, n’atu esse e nun si ritira
Sono tre fratelli e non si trovano uno con l’altro, uno mangia e non si sazia, l’altro dorme e non si sveglia, l’altro ancora esce e non si ritira
(Il fuoco, la cenere e il fumo)
Sottu u ponti hi bell’aqqua, c’è na femmina ki si sciaqqua, si sciaqq’u vandisinu, figliu ri ‘rre chi l’anduvina
Sotto il ponte di Bell’acqua, c’è una donna che si sciacqua, si sciacqua il grembiule, figlio di re chi la indovina
(La rana)
Stort’e malorta a tuttu u munnu porta
Storta e bistorta in tutto il mondo porta
(La strada)
Tengu a ʼnnammurata mia k’a vasu, ha rivasu, e dppu k’aggiu vasata h’ammortu
Tengo la mia innamorata che la bacio, la ribacio e dopo che l’ho baciata la do a morte
(La sigaretta)
Tengu na cest’hi iankirìa, tutta fatt’a botti ʼngulu
Ho una cesta di biancheria, tutta fatta a botte in culo
(Le uova sbattute)
Tengu nu vrazzu quand’a nu cazzu e li cugliuni tre rotula l’unu
Tengo un braccio quanto un pene, e i ciglioni tre rotoli l’uno
(Il campionatore. Antica bilancia che si usava pure a braccio. Rotolo: antica unità di misura 0,80 Kg)
Ting e ting ìa pì bìa, scuntrau a malingunia, si nu era pi occhiu tortu, ting ting sirrìa mortu
Tintin andava per la via ed incontrò la malinconia, se non era per l’occhi storto tintin sarebbe morto
(La pecora, il lupo, il cane)
U iurnu a vocca chiusa, a notti a vocca aperta
Il giorno a bocca chiusa e la notte a bocca aperta
(Le scarpe)
Vau vengu e tornu, amica so ri notti e mica hi iurnu
Vado, vengo e torno, amica son di notte e non di giorno
(La lanterna)
Vola vuledda vulava, senza peri cammenava, senza hali si pusava, ki bellu chianti ka facìa
Vola voletta volava, senza piedi camminava, senza ali si posava, che bel pianto che faceva
(La neve)
Pubblicato il: 26.02.2017
Vincenzo Capodiferro